Il voto di sfiducia contro il primo ministro Abdifarah Shirdon che ieri in parlamento ha decretato la fine del attuale governo, “costa alle istituzioni somale in termini di fiducia un prezzo troppo alto e che il paese non si può permettere”. A sostenerlo è un’analisi dell’Heritage Institute for Policy Studies, primo think tank indipendente sulla politica somala con sede a Mogadiscio, che ricorda come poco più di un anno fa, nel settembre 2012, la nomina del governo di Shirdon avesse concentrato su di sé tutte le speranze di riportare la pace nel paese.
Le dispute tra il presidente Hassan Sheikh Mohamoud e il capo del governo – all’origine del voto di fiducia in parlamento – ricalcano uno scenario già visto e che in passato ha contribuito ad affossare più di un tentativo di riportare la stabilità in Somalia. Ma soprattutto, insistono gli osservatori, riflettono “l’anomalia di un sistema politico ideato per garantire l’equilibrio di potere tra i principali clan del paese ma che, di fatto, rende inevitabile il cortocircuito tra i due poteri, paralizzando il lavoro delle istituzioni e alimentando le tensioni intercomunitarie”.
In base alla Costituzione provvisoria, il presidente sceglie il premier ma non può deporlo. Quest’ultimo, a sua volta, gode di libertà di iniziativa e politica ma le sue decisioni restano soggette dall’approvazione del capo di Stato.
Al contrario di quanto dichiarato pubblicamente dal rappresentante speciale dell’Onu Nicholas Kay, che poche ore dopo il voto in aula ha parlato di “maturazione” delle istituzioni e del Parlamento – definendo “importante e significativo” il processo svoltosi in adempimento ai principi costituzionali – i politologi somali parlano di “palese compravendita di voti” e “grave perdita di legittimità” da parte dei deputati.
Mohamoud ha 30 giorni di tempo per nominare un nuovo premier, ma allo stato attuale, il sostegno alla leadership del paese sembra essere precipitato ai livelli più bassi dalla sua entrata in carica, nell’agosto 2012. E questo, rincarano gli editoriali al vetriolo di diverse pubblicazioni somale, mentre le relazioni con gli stati ‘federali’ sono contrassegnate dalle tensioni. Nonostante gli accordi di massima, infatti, i rapporti con il Jubaland rimangono difficoltosi, il Puntland continua ad astenersi dall’interloquire con il governo centrale e il terzo round dei negoziati con il Somaliland è stato rinviato ancora una volta.
“Cosa ci aspetta?” chiede laconico un articolo pubblicato dal quotidiano on-line Garowe, aggiungendo che “forse questa è una domanda che i nostri politici non si fanno, tanto a pagare dei loro continui fallimenti è sempre e solo il popolo somalo”.
Un ulteriore elemento di preoccupazione riguarda poi il calendario per le elezioni nazionali, previste per il 2016: finora, secondo le informazioni in circolazione, nessuna delle 11 commissioni elettorali indipendenti è stata ancora convocata. – Misna