“Viviamo nella paura” dice alla MISNA monsignor Vincent Mojwok Nyiter, vescovo emerito di Malakal, la diocesi del Sud Sudan dove nell’ultimo mese e mezzo i combattimenti sono stati più intensi e le conseguenze per la popolazione più drammatiche.
Il colloquio si svolge mentre dalla periferia della sua diocesi, dalla contea di Leer, giungono notizie di avanzate dell’esercito, riposizionamenti dei ribelli e civili in fuga. “A Leer – sottolinea il vescovo – sta accadendo ciò che è già successo in altre città e villaggi delle regioni di Unity e Upper Nile: uomini armati in uniforme arrivano, distruggono, bruciano, uccidono, non risparmiano civili né chiese né nulla”.
A Malakal, monsignor Mojwok lo ha visto con i propri occhi. L’ingresso in città dei ribelli legati all’ex vice-presidente Riek Machar, poi la controffensiva delle forze fedeli al capo di Stato Salva Kiir, poi ancora i coltelli puntati alla gola per un’automobile, un telefono cellulare o qualche banconota. A Malakal hanno saccheggiato anche la chiesa di San Giuseppe che, sottolinea il vescovo, “nei giorni più difficili aveva offerto protezione a migliaia di persone”.
È impossibile, ora, stabilire quante siano state le vittime. Ma monsignor Mojwok dice di molti morti e di “cadaveri nelle strade per giorni senza che nessuno potesse seppellirli”. E l’accordo di tregua firmato il 23 gennaio, aggiunge, non è una garanzia.
Ancora oggi fonti della MISNA riferiscono di un’avanzata dei reparti lealisti nella contea di Leer, con migliaia di sfollati costretti a fuggire una seconda volta in poche settimane. E il futuro è un’incognita. Anche perché il conflitto ha rinfocolato le tensioni tra alcune delle principali comunità del Sud Sudan, un paese appena divenuto indipendente, per oltre 20 anni dilaniato dalla guerra civile. I sostenitori di Kiir sono di frequente identificati con i Dinka, il gruppo al quale appartiene il presidente. I ribelli alleati a Machar sono invece associati ai Nuer, la comunità del suo ex-vice.
Monsignor Mojwok, uno Shilluk, l’etnia maggioritaria a Malakal, sottolinea che nella sua diocesi i differenti gruppi hanno saputo rispettarsi e vivere insieme. Ma adesso parla di “una ferita profonda”. “Come Chiesa – sottolinea – dobbiamo curare e riconciliare, nella consapevolezza che sarà un percorso difficile, che richiederà molto tempo”. – Misna