“Diciamo no a progetti, come quello della Tampieri, varati e attuati senza consultare le comunità locali. L’appropriazione delle nostre terre porta alla distruzione del mondo rurale, genera ulteriore povertà e insicurezza alimentare oltre a mettere in pericolo l’ecosistema”: è chiara l’argomentazione di Mariam Sow, esponente di Enda Pronat (Ente di promozione della promozione di colture naturali), impegnata al fianco di altre ong locali e internazionali in difesa dei contadini e pastori senegalesi minacciati dall’accaparramento delle terre, fenomeno noto come landgrabbing, da parte di società straniere.
Nello specifico è in gioco la sopravvivenza di 9000 persone e 80.000 capi di bestiame di 37 villaggi della riserva di Ndiael, nel nord-est del Senegal, privati di pascoli, fonti idriche e altre risorse vitali per la loro sussistenza. “Immaginatevi intere comunità autoctone che da decenni coltivavano terreni per sé e per dare da mangiare al bestiame e, dalla mattina alla sera, perdono tutto, costrette a lasciare le proprie abitazioni. Voi come reagireste?” si interroga Elhadji Thierno Cissé, del Consiglio nazionale per la consultazione e la cooperazione rurale del Senegal (Cncr). “Il loro futuro – denuncia l’attivista – è appeso a un decreto presidenziale”.
Il testo in questione, firmato nel 2012 dal neo presidente Macky Sall, prevede la concessione in affitto di ben 20.000 ettari alla Senhuile SA, controllata al 51% dall’italiana Tampieri Financial Group SpA e al 49% dalla società senegalese a capitale misto Senethanol SA, con un assetto societario poco chiaro che coinvolge anche una società di comodo costituita a New York, la Agro Bioetanolo Int. LC. “Le trattative con le aziende straniere sono state gestite dallo Stato senegalese senza alcuna trasparenza. Non sappiamo neanche a quale prezzo le terre sono state cedute, a quanto pare per 50 anni, e a quali condizioni” denuncia Elhadji Samba Sow, rappresentante del Collettivo dei villaggi di Ndiael.
In realtà il progetto, inizialmente destinato a produrre biocarburante a partire dalla patata dolce, è in cantiere dal 2011, quando l’allora presidente Abdoulaye Wade diede il via libera alla sua realizzazione nella comunità rurale di Fanaye, a una trentina di chilometri dal sito attuale. Gravi scontri tra sostenitori e oppositori conclusi con vittime e feriti ma anche la scadenza elettorale del 2012 spinsero le autorità senegalesi a sospendere il progetto. L’ex capo di Stato ha successivamente individuato 26.500 ettari della vicina riserva di Ndiael. A sua volta l’attuale presidente Sall dopo aver abrogato il decreto lo ha reintrodotto pochi mesi dopo la sua elezione. L’obiettivo più o meno dichiarato è attirare investitori stranieri con progetti che sulla carta promettono posti di lavoro, infrastrutture e sviluppo.
“Siamo passati da 168.000 ettari letteralmente mangiati dalle multinazionali dell’agrobusiness nel 2008 a più di 844.000 oggi (circa un quarto delle terre coltivabili in Senegal, ndr). Ovviamente con il beneplacito dello Stato ma in barba ai diritti sulle terre delle comunità autoctone” ha sottolineato Fatou Ngom di ActionAid Senegal.
Senza alcuna spiegazione ufficiale la Senhuile SA ha abbandonato il progetto iniziale di biocarburante e oggi sui terreni accaparrati a Ndiael produce semi di girasole importati in Europa, semi di arachidi e alcune tipologie di mangimi destinati ai locali. Tutte colture che i contadini senegalesi sono in grado di produrre da soli.
In Senegal, il 50% della popolazione lavora nel settore primario ma in condizioni sempre più difficili: i terreni rimangono di proprietà dello Stato che possono recuperarli da un momento all’altro e l’accesso ai crediti è pressoché impossibile. Eppure sono loro, gli agricoltori senegalesi, a coprire il 63% del fabbisogno alimentare nazionale, in un paese dove l’agricoltura è di tipo familiare al 75%. Ciononostante ciclicamente il paese dell’Africa occidentale deve far fronte a crisi alimentari che fanno aumentare i prezzi del cibo.
“Siamo di fronte a un paradosso: con quale diritto le autorità riprendono le nostre terre, vitali per la nostra sopravvivenza, e le consegnano senza consultarci ad operatori stranieri a condizioni poco vantaggiose per il paese” dice la Sow, deplorando che “come conseguenza dell’indebolimento dell’agricoltura, che non viene più considerata un settore di occupazione degno, migliaia di giovani senegalesi hanno lasciato il Senegal per immigrare in Europa”.
In questi giorni le organizzazioni contadine e le comunità locali del Senegal sono impegnate in una settimana di iniziative in Europa per denunciare l’accaparramento delle terre accanto alle associazioni che le sostengono: Re:Common, Action Aid Italia, Peuples solidaires, Grain e Oakland Institute. – Misna