La riflessione di Paolo Branca, uno dei maggiori islamisti italiani: «È un bene che gli egiziani non abbiano rinunciato a prendersi il diritto di farsi sentire, anche se far fuori un presidente all’anno sarebbe catastrofico»
Quando acquistai il mio primo biglietto aereo per il Cairo, il 6 ottobre 1981, Sadat cadeva sotto il fuoco di un gruppo radicale (che proclamò: “abbiamo ucciso il Faraone!”) e gli succedeva alla presidenza il non meno longevo Hosni Mubarak. Ci sarebbe rimasto infatti 30 anni prima che moti di piazza ne provocassero la caduta. Dopo un solo anno, le stesse piazze hanno portato alla rimozione di Morsi. La prima reazione sbalordita è quella che mi porta a constatare un’incredibile accelerazione dei rivolgimenti politici in un Paese che ci eravamo abituati a considerare un po’ sonnolento, disposto a pazientare, forse persino rassegnato. È un bene che, dopo essersi ripresi il diritto di farsi sentire, gli egiziani non vi abbiano rinunciato, ma ovviamente far fuori un presidente all’anno sarebbe una prospettiva catastrofica.
Dunque occorre cercare di trarre qualche insegnamento da quanto è accaduto, diffidando sia del facile entusiasmo di chi sperava in questa conclusione sia dell’altrettanto semplificatoria tesi che grida al golpe. Che i Fratelli Musulmani dovessero avere un ruolo determinante nel nuovo Egitto era nella natura delle cose. Nessun altro movimento ha pagato un prezzo simile a loro nell’opporsi ai vari regimi militari che si sono succeduti nel corso dei decenni. Il loro radicamento nel territorio, specie nelle periferie dimenticate e degradate, li ha portati a beneficiare più di altri dell’esito di una rivolta che non erano stati loro a iniziare. Di questo non hanno però tenuto adeguatamente conto e candidando un loro leader (e neanche dei migliori) alla Presidenza hanno colto il frutto avvelenato di una vittoria fin troppo facile, visto che l’opposizione altrettanto sconsideratamente si era stretta attorno a Shafiq, uomo troppo vicino al regime appena tramontato…
La metà del movimento islamico era del parere di non candidare un proprio esponente alla somma carica, intuendo probabilmente che se mezzo Egitto avrebbe esultato, gli altri si sarebbero sentiti molto meno soddisfatti. Le enormi sfide cui il nuovo governo avrebbe dovuto far fronte in brevissimo tempo, inoltre, potevano suggerire una gestione più condivisa delle responsabilità, almeno per convenienza. Invece la spirale del potere ha presto creato un gorgo istituzionale che ha isolato sempre di più Morsi anche all’interno dell’ala religiosa. Aggiungete alcune scelte decisamente sbagliate, come la nomina a governatore di Luxor di un personaggio implicato nella strage di turisti del ’97, e deliranti prediche che paragonavano ogni oppositore a un apostata e avrete come risultato la miscela esplosiva che è deflagrata il 30 giugno.
Un presidente deposto dai militari e l’ondata di arresti che ne è seguita non sono un bello spettacolo. Sono misure estreme che ci auguriamo di veder presto superate, ma ciò sarà possibile solo se ciascuno dei due fronti saprà anteporre l’interesse del Paese a quelli della propria parte.
L’Egitto è e resterà il maggior paese arabo-musulmano del Medio Oriente e del Nordafrica e il suo contributo rimane essenziale, anche e soprattutto come modello di una transizione dalla dittatura alla democrazia senza dover sacrificare nulla della sua identità maggioritariamente musulmana.* Paolo Branca – Vita