Quello delle domestiche-bambine è un fenomeno che, negato dalle autorità ufficiali dei Paesi del Nord Africa dove esso è ben presente, anzi profondamente radicato, continua ad essere uno sfregio alla condizione femminile, oltre che al diritto dei più giovani ad essere tutelati nel mondo del lavoro.
In Marocco questa piaga sociale – nonostante i casi di suicidi di queste ragazze – è difficile da sradicare perché è parte integrante della cultura, ma anche perché è una fonte di sostentamento per molte famiglie che vivono in villaggi rurali e per le quali i pochi soldi che ottengono per la ”cessione” delle loro giovanissime figlie sono spesso le uniche entrate degne di tale nome. Anche se questo significa consegnare ad estranei delle ancora bambine, costrette a lavorare per dodici/quattordici/sedici ore al giorno, in un clima di semischiavitù, senza alcuna tutela o protezione sociale.
Ma queste bambine non ancora ragazze sono spesso anche vittime di violenze sessuali, che maturano nel chiuso delle mura domestiche, senza testimoni se non la paura e l’umiliazione di chi le subisce. In Mauritania, dove la schiavitù è parte integrante del patrimonio culturale del Paese (tanto che chi coraggiosamente vi si oppone rischia la galera), la condizione delle giovanissime domestiche è quasi ignorata, così come il calvario che molte di esse sono costrette ad affrontare ogni giorno, tra il lavoro e le violenze che subiscono. Tacendo del fatto che, per andare a lavorare, hanno dovuto abbandonare gli studi, subendo la decisione dei genitori, spesso spinti a privarsi di loro dalla prospettiva di potere nutrire gli altri figli. Secondo due ong – l’Associazione delle donne capofamiglia e Terre des Hommes – su 4.272 baby-domestiche censite nella capitale mauritana, Nouackchott, quasi tremila hanno rivelato, con una buona dose di coraggio, d’essere state vittime di violenze sessuali e maltrattamenti.
Una percentuale drammaticamente altissima che non lascia spazio a previsioni di una evoluzione sociale positiva per queste ragazze, quasi sempre strappate all’ambito familiare e catapultate, nel volgere di poche ore, in una realtà sociale diversa e paurosa, quale quella che si manifesta passando dal loro villaggio alla ‘grande città. Una realtà che, peraltro non conosceranno dovendo restare in casa a lavorare dall’alba al tramonto, senza la possibilità di uscire, se non quando vengono portate in giro dalla capofamiglia, quasi un ornamento per ostentare la propria agiatezza.* Diego Minuti (ANSAmed).