Il ragazzo sulla copertina si chiama Berhan: aveva solo 15 anni quando lasciò l’Eritrea, a 16 si ritrovò in una ‘casa di tortura’ nel Sinai, come migliaia di altri eritrei che tuttora sono quotidianamente torturati e violentati per estorcere alle famiglie il prezzo del riscatto (per lui furono pagati 38 mila dollari). Poi finì in un carcere egiziana, dove avrebbe dovuto pagare lui stesso il rimpatrio forzato. Cosi’ scappo’ in Libia, nei cui campi di detenzione trovò altri strupri e torture. Da qui si imbarcò sul barcone affondato il 3 ottobre a Lampedusa, dove morirono 366 eritrei.
La storia di Berhan è un esempio del ciclo senza uscita del traffico umano di cui parla il rapporto “The Human Trafficking Cycle: Sinai and Beyond”, presentato oggi a Roma alla Camera dalle autrici – la docente universitaria Miriam van Reisen, la giornalista Meron Estefanos e la presidente dell’ong Gandhi, Alganesh Fissehaye – insieme a don Mussie Zerai dell’agenzia italiana Habeshia e dal deputato Emilio Ciarlo (Pd).
Un ciclo in cui i rifugiati restano intrappolati per anni: soprattutto eritrei (in 5000 fuggono ogni mese, secondo la Cia) spesso rapiti nei campi profughi in Etiopia e Sudan, venduti e rivenduti dai trafficanti – spesso con complicità impunite negli apparati di sicurezza – e sequestrati nel Sinai come merce da riscatto. Qui, per spingere famiglie e amici a pagare cifre sempre piu’ alte, sono sistematicamente torturati e struprati in diretta telefonica, così che da casa possano sentire le loro urla. E se muoiono le famiglie non lo sanno e pagano lo stesso. Nel rapporto – già presentato a Bruxelles – si parla di 25-30 mila persone vittime del traffico in Sinai tra il 2009 e il 2013 – tra morti, scomparsi, sopravvissuti o detenuti. A gestire il traffico i beduini del Sinai, che hanno così creato un business organizzato – da 600 milioni di dollari in cinque anni, secondo il rapporto. Ma – dice Alganesh Fissehaye, che fa base a Milano – molti elementi fanno pensare a complicità a Gaza – collegata con i tunnel scavati sotto la frontiera di Rafah – e con i jihadisti che stanno spargendo il caos nel Sinai. Jihadisti ora in guerra con le nuove autorità egiziane, che con i loro attacchi ai miliziani finiscono per disturbare anche un traffico rimasto sostanzialmente “ignorato”, dice, sia dal’ex presidente Morsi che dal suo predecessore Mubarak.
La sua ong Ghandi, racconta la dottoressa di origine eritrea, ha finora liberato dalle carceri egiziane 1800 detenuti ed è riuscita a far fuggire 400-500 profughi dalle ‘case di tortura’ con l’aiuto di un salafita del posto, Sheikh Awwad Mohamed Ali Hassan, “che i trafficanti sanno di non poter colpire, mentre io sono stata piu’ volte minacciata”.
L’Egitto ha una legge contro la tratta, ma i trafficanti restano impuniti e i sopravvissuti non hanno accesso alle procedure di asilo. Israele, che ha eretto una barriera sul confine, adotta una linea di “violenti respingimenti” in territorio egiziano o richiude i profughi in “stabilimenti aperti” nel deserto. In Libia, oltre alle violenze dei campi di detenzione, non vi è alcun accesso alla consulenza legale: tanto che è ora, sottolinea Ciarli, che si rivedano i precedenti accordi con Tripoli, che si aggiornino le norme italiane in materia di asilo e soprattutto che l’Italia “ricostruisca una sua strategia sul Corno d’Afrirca”, dove può svolgere un ruolo.
L’operazione ‘Mare nostrum’ avviata dall’Italia va bene per salvare vite, osserva Miriam van Reisen, ma l’Europa non ha ancora preso la strada giusta dopo la tragedia del 3 ottobre, anzi: le ultime indicazioni vanno ancora piu’ verso la “militarizzazione”, con il rafforzamento di Frontex e l’uso di droni, e l'”esternalizzazione” ai paesi nordafricani. Tutte misure che non agiscono sulle radici della tratta. Le cui vittime sono, ricorda, persone che fuggono non per trovare lavoro in Europa, ma rifugio in altri paesi africani. * Luciana Borsatti – (ANSAmed)