«Durata indefinita del servizio militare, arresti, detenzioni arbitrarie, condizioni difficili nelle carceri: tutte queste violazioni dei diritti umani non permettono agli eritrei di vedere un futuro per sé nel paese». È quanto afferma in un’intervista esclusiva alla Radiotelevisione della Svizzera italiana Sheila B. Keetharuth, relatrice speciale dell’Onu sull’Eritrea.
Dal paese dell’Africa orientale ogni mese scappano in media 4’000 persone, stando ai dati dell’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati. Nominata due anni fa dal Consiglio dei diritti umani dell’ONU di Ginevra, Sheila B. Keetharuth oggi esclude che le condizioni in Eritrea siano migliorate e che la Svizzera possa rivedere le procedure d’asilo o rimpatriare gli eritrei attualmente accolti in territorio elvetico.
Nel terzo trimestre 2014, le oltre 3.500 domande d’asilo presentate da eritrei in Svizzera hanno segnato un aumento del 110%.
Finora il governo di Asmara non ha autorizzato Sheila B. Keetharuth(relatrice speciale dell’ONU per l’Eritrea) a recarsi in Eritrea, malgrado le sue richieste. Per le indagini, la relatrice speciale dell’Onu non può che affidarsi alle testimonianze raccolte (anche in Svizzera) tra i profughi eritrei appena scappati dal paese: un esodo senza fine. E tutti raccontano delle sistematiche violazioni dei diritti e di una repressione senza fine.
Nel suo ultimo rapporto definisce «catastrofica» la situazione dei diritti umani in Eritrea. Perché?
Sheila B. Keetharuth: Al momento circa 4’000 eritrei al mese lasciano il paese, secondo dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Perché questo numero è aumentato? Ci potrebbero essere molte risposte. Ma gli eritrei con cui ho parlato mi hanno fatto capire le cause: durata indefinita del servizio militare, violazioni ad esso connesse, e poi arresti, detenzioni arbitrarie, condizioni difficili nelle carceri. Queste violazioni dei diritti umani e le condizioni economiche non permettono di vedere per sé un futuro nel paese.
Lei ha citato violazioni anche durante il servizio militare. Quali?
S.B.K.: Parliamo di tutta la questione degli abusi sessuali all’interno dell’esercito. Il servizio militare riguarda anche le donne, che subiscono molestie e violazioni sessuali da parte degli ufficiali.
E al di fuori dell’esercito, quali sono le più diffuse violazioni dei diritti umani in Eritrea?
S.B.K.: Per esempio la libertà d’espressione. La gente ha paura. Non si può parlare di arresti, detenzioni o condividere informazioni. Tutta l’informazione pubblica è controllata dal governo. E poi le pratiche religiose: ci sono 4 confessioni accettate, le altre non sono autorizzate. Altri diritti civili, come quello di riunirsi, sono negati. Ma anche diritti economici, sociali e culturali. La gente non ha il diritto di scegliere la propria professione, che viene decisa dal governo dopo l’ultimo anno di scuola obbligatoria.
A proposito di scuole, giovani dell’ultimo anno di scuola superiore sono obbligati a passare attraverso l’addestramento militare prima del diploma. E poi non solo il servizio militare dura di più, ma i soldati – stando a molte denunce – vengono sfruttati come manodopera sottopagata. Lei ha conferme?
S.B.K.: Quello che so è che durante il servizio militare molti eritrei vengono utilizzati per altri lavori. Non ho investigato su notizie di soldati usati da aziende private, ma molti riferiscono di lavorare per fattorie, costruzione di dighe e altri lavori pubblici.
Qui in Svizzera qualcuno ha detto che bisognerebbe ripensare alla concessione di asilo politico agli eritrei perché le condizioni del loro paese stanno migliorando. Secondo lei in Eritrea si vive meglio ora?
S.B.K.: Ho avuto la possibilità di parlare con molti eritrei che hanno lasciato da poco il paese, circa un anno fa o anche scappati da pochi mesi o appena arrivati. Si trattava di persone diverse. Chi ha appena lasciato l’esercito, ex-insegnanti, ex-infermieri… Non ho avuto alcuna indicazione che le cose stiano migliorando.
Gli eritrei continuano a riferire di arresti e detenzioni, di condizioni difficili nelle prigioni, dello stesso contesto di repressione e di mancato godimento dei diritti civili. Purtroppo non ho alcun elemento per confermare un maggior rispetto dei diritti umani fondamentali.
Lei è il primo relatore speciale per l’Eritrea nominato dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu, due anni fa. Qualcosa è cambiato dopo la sua nomina?
S.B.K.: C’è maggior consapevolezza su ciò che accade in Eritrea rispetto a 3-4 anni fa. Grazie al lavoro della società civile è stato creato il mio ruolo, che aggiunge un ulteriore livello a ciò che è già stato fatto.
D’accordo la consapevolezza, però avete pure creato una commissione d’inchiesta e lei non è mai stata autorizzata ad andare in Eritrea. Come può condurre le sue indagini?
S.B.K.: Naturalmente preferirei investigare sulle violazioni in Eritrea dall’interno del paese. Il fatto che non mi permettano di andare lì, non mi ha però impedito di incontrare eritrei. E anche le poche conversazioni che sono riuscita ad avere con esponenti governativi sono state importanti. Una commissione di inchiesta servirà per avere maggiori risorse a disposizione per indagare sulle violazioni dei diritti umani e prepararsi a individuare le responsabilità.
A proposito di responsabilità, decine di migliaia di eritrei abbandonano il paese ogni anno. Sarà mai possibile – prima o poi – individuare responsabilità individuali del regime di Asmara, di chi viola i diritti?
S.B.K.: Se guardiamo al rispetto delle leggi in Eritrea l’ho scritto: non c’è costituzione, non c’è separazione dei poteri, le decisioni sono prese da pochissimi, chi è in prigione non può verificare la legalità della sua detenzione… Queste sono alcune delle questioni di cui mi sto occupando e che sono molto importanti dal punto di vista delle responsabilità individuali. Penso per esempio al diritto delle persone a una magistratura indipendente, che possa verificare le condizioni di detenzione o la durata dei processi, insomma per permettere alla gente di aver fiducia nelle istituzioni. E questa fiducia manca moltissimo nel contesto dell’Eritrea.* Emiliano Bos – Swissinfo