“I media si sono svegliati improvvisamente, ma non sorprendentemente, quando ci sono stati due o tre casi da noi; quando i morti erano solo in Africa, ma erano già migliaia, l’attenzione era molto poca”: a parlare con la MISNA è Saverio Bellizzi, epidemiologo di Medici senza frontiere (Msf). Un esperto da mesi sulla linea del fronte, in Guinea durante la prima fase dell’epidemia, poi in Liberia. Dove, dice, la situazione è “catastrofica” e i malati “muoiono a casa contagiando parenti e amici”.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nei prossimi due mesi i nuovi casi di contagio rischiano di essere tra i 5000 e i 10.000. L’epidemia non ha ancora raggiunto la fase più acuta?
“Le stime dell’Oms sono in linea con le nostre. Già oggi i casi di contagio accertati sono tra gli 8000 e i 9000. Ma nel conto non figurano tante persone che muoiono a casa. A Monrovia la situazione è catastrofica. Chi ha contratto il virus muore a casa, contagiando i parenti e coloro che gli stanno vicino”.
Le strutture sanitarie non sono in grado di accogliere tutti coloro che avrebbero bisogno di assistenza?
“A Monrovia Medici senza frontiere gestisce un centro con 200 posti letto, un record per ebola. L’obiettivo in prospettiva è garantire 400 posti, raddoppiando la capacità di accoglienza. Quando ero in città, due settimane fa, le autorità locali hanno aperto un altro centro in collaborazione con l’Oms. Il problema, però, non è solo la mancanza di centri attrezzati. Serve personale preparato, in grado di gestire le strutture, assistere i pazienti e proteggere se stessi: in assenza di queste capacità il rischio è che invece di contrastare l’epidemia la si favorisce”.
Gli Stati Uniti hanno annunciato l’invio di 3000 soldati in Liberia per aiutare il paese a dotarsi di nuovi centri di assistenza…
“I soldati americani hanno cominciato ad arrivare, ma nell’immediato l’emergenza resta drammatica: secondo l’Oms, in Liberia il numero dei posti letto disponibili è appena il 21% di quello che servirebbe. La percentuale è appena più alta in Sierra Leone, del 26%, mentre in Guinea è del 75%”
L’Organizzazione mondiale della sanità sostiene che per ora Nigeria e Senegal sono riusciti a limitare i danni. È davvero così?
“In Nigeria è stato fatto quello che deve essere sempre fatto quando i casi sono ancora pochi. Sono state messe in isolamento tutte le persone entrate in contatto con i malati. Si chiama ‘contact tracing’ ed è un lavoro fondamentale, come la messa in quarantena per i 21 giorni di una possibile incubazione. È la procedura che abbiamo applicato a Télimélé: questa cittadina della Guinea sul sito dell’Oms è presentata come ‘la township che ha sconfitto ebola’”.
E nei paesi dove la situazione è sfuggita di mano? Cosa si deve fare?
“Il problema della Liberia è proprio questo: ha perso il momento giusto. A Monrovia sono stati registrati migliaia di casi, in tutti i quartieri della città. Gli abitanti sono circa un milione e tutti oggi sono potenziali contagiati. Oggi è fondamentale anzitutto recuperare i cadaveri dei malati e cremarli al più presto, perché i corpi dei defunti restano la principale fonte di contagio”.
A Freetown, la capitale della Sierra Leone, ieri ci sono stati disordini e scontri tra dimostranti e poliziotti legati pare proprio alla mancata sepoltura dei morti di ebola…
“Non sono a conoscenza di questo caso specifico. Di certo, in Sierra Leone e Liberia tensione e frustrazione sono diffuse. A Monrovia la gente si rende conto del pericolo ed è scoraggiata dal vedere che le persone malate sono rimandate a casa perché negli ospedali non c’è posto. C’è una risposta inadeguata da parte delle autorità e questo può far esplodere la rabbia”.
Come giudica la copertura che i mezzi d’informazione europei e nordamericani hanno dato di ebola?
“I media si sono svegliati improvvisamente, ma non sorprendentemente, quando ci sono stati due o tre casi da noi. Ora si crea allarme e, addirittura, si alimenta una psicosi. Mentre l’allarme esisteva da sette mesi, come dimostrano gli oltre 4000 morti e i quasi 9000 contagiati in Africa occidentale. Adesso, dopo i casi negli Stati Uniti, in Spagna e in Germania, c’è un picco di attenzione. Nei mesi scorsi, quando sembrava che ebola restasse in Africa, c’era stato silenzio totale o comunque scarsa attenzione”. – Misna