Il gigante Sudafrica sta vacillando sotto i colpi del coronavirus. La maggiore economia dell’Africa – insieme alla Nigeria – sta vivendo la sua seconda recessione in due anni. L’ufficio di statistica nazionale ha reso noto che nell’ultimo trimestre del 2019 il Pil ha subito una contrazione dell’1,4%, crescendo in un anno solo dello 0,2%. Il Sudafrica, inoltre, è il Paese africano con il più alto gap sociale. I dati, infatti, raccontano di un Paese che non è riuscito, ancora, a ridurre la povertà e le differenze sociali. I più penalizzati, manco a dirlo, sono i neri. Su una popolazione di circa 57,2 milioni di abitanti, almeno 7 soffrono la fame, non hanno accesso ai beni, ai servizi essenziali e al lavoro. La disoccupazione rimane una piaga importante (29%), il livello più alto negli ultimi dieci anni, e se si aggiungono coloro che non cercano più lavoro, la percentuale sale al 38,5%.
Un’emergenza nell’emergenza
Ma ciò che sconcerta di più è che la parte più povera del Paese viva nei centri urbani, con enormi difficoltà proprio a guadagnarsi di che vivere. E in particolare negli slum, dove è ancora più esposta al rischio coronavirus, proprio per le condizioni igieniche e per l’impossibilità di mettere in atto quel distanziamento sociale che può rallentare la diffusione del virus. Insomma il lockdown per le popolazioni degli slum è solo un miraggio. E come in buona parte dei Paesi africani, in Sudafrica la sanità ha costi inaccessibili ai più. In questo contesto contrastare la diffusione del coronavirus diventa un’impresa ardua. Così come provvedere ai bisogni essenziali. Il Sudafrica, inoltre, deve affrontare un’emergenza nell’emergenza. Il Paese registra il maggior numero di pazienti affetti da aids al mondo, 7,5 milioni. In tempi di coronavirus tutto ciò ha creato un nuovo allarme nella comunità medica. Per questo è stata lanciata una campagna che ha come parole d’ordine: “Test dell’Hiv e trattamento obbligatorio”. La comunità scientifica, immediatamente dopo la comparsa dell’epidemia di coronavirus in Cina, ha lanciato l’allarme sui possibili rischi che il virus potrebbe comportare per i pazienti con aids e un sistema immunitario indebolito. Soprattutto in Sudafrica, dove – secondo le stime – un terzo delle persone sieropositive non è sottoposto a terapie antivirali perché non conosce il proprio stato o perché si rifiuta di assumere i farmaci.
Il parere dei medici
L’epidemia di coronavirus sta assumendo dimensioni preoccupanti – oltre 1934 casi e 13 decessi – considerando anche i rischi che corrono i pazienti affetti da Hiv. «Non sappiamo davvero cosa succederà», spiega alla France Presse il professor Anton Stoltz, responsabile del dipartimento di malattie infettive dell’Università di Pretoria. Gli esperti, tuttavia, sanno come reagisce un sieropositivo rispetto ad altre infezioni virali. «Sappiamo – aggiunge il professor Stoltz – che i pazienti sieropositivi che assumono antivirali rispondono alle infezioni virali, come l’influenza, in modo simile alle persone sieronegative». Al contrario, i malati di aids che non sono sottoposti a trattamenti con antivirali corrono un rischio maggiore di contrarre queste infezioni. La professoressa Kogie Naidoo del Centro per il programma di ricerche sull’aids in Sudafrica (Caprisa) ha spiegato che le «persone sieropositive che non conoscono il loro stato o che non sono sottoposte a terapie antivirali possono essere a maggior rischio di contrarre il Covid-19». E aggiunge che è essenziale conoscere lo stato sierologico, e se il test per l’aids è positivo, è indispensabile iniziare il trattamento antivirale lo stesso giorno. Coloro che sono già in trattamento antivirale devono seguire alla lettera le prescrizioni, assicurandosi che la carica virale sia stata soppressa, così da «poter affrontare, se necessario, un’infezione da Covid-19 come una persona che non è portatrice di Hiv».
L’allarme tubercolosi
La campagna messa in atto da molti ospedali sembra avere un qualche successo, tanto che il dottor Jean Basset della clinica Witkoppen di Johannesburg spiega che nelle ultime settimane c’è stato un aumento dei pazienti che vogliono riprendere o iniziare il loro trattamento, anche se si recano in ospedale a causa del coronavirus e sembra che abbiano più paura per il Covid-19 che dell’aids. Bassett racconta di una madre di quattro figli che si è presentata in clinica per riprendere le cure, spaventata dalla nuova emergenza. «A novembre ho interrotto il trattamento – racconta la donna al medico –. Avevano perso il mio fascicolo in una clinica ed è troppo complicato recuperarlo. Ma adesso voglio riprendere le cure, devo prendermi cura dei miei gemelli di otto mesi». Questo, secondo il dottor Bassett, è molto incoraggiante: spera che il nuovo virus funga da “fattore scatenate” per coloro che sono stati ai margini o non hanno accettato il trattamento antivirale.
Gli esperti, inoltre, ritengono che anche i pazienti affetti da tubercolosi siano più vulnerabili di altri. Si calcola che in Sudafrica siano 300mila – uno dei Paesi più colpiti al mondo. Il Sudafrica sta entrando nell’inverno australe, stagione nella quale si sviluppa maggiormente la tubercolosi. I sintomi sono febbre, affaticamento e tosse. «Le persone però pensano subito al Covid-19 – spiega la professoressa Naidoo –, ma non bisogna dimenticare di testare queste persone per presunta tubercolosi», altrettanto contagiosa. Tutti sulla stessa barca, alcuni con i remi e molti altri no. L’impatto sociale, non solo sanitario, potrebbe essere molto duro per quella parte di popolazione più vulnerabile e potrebbe coinvolgere, in maniera drammatica, anche fasce che, appunto, “hanno i remi”. Ma che potrebbero non bastare.
(Angelo Ravasi)