Che fare se il boom petrolifero finisce? Il prezzo del barile viaggia intorno ai minimi degli ultimi cinque anni e i paesi, soprattutto africani, che sul greggio hanno fondato la loro crescita recente devono correre ai ripari. Tra quelli che potrebbero aver individuato una fonte di reddito capace di compensare almeno in parte le perdite c’è l’Angola, che di recente è tornata a guardare con più attenzione ai diamanti.
Secondo il ministero delle Finanze di Luanda i proventi di questo settore, comprese tasse e royalties, hanno raggiunto i 6,5 milioni di dollari nei primi nove mesi del 2014: praticamente quanto totalizzato nell’intero 2013. Nella prima metà dell’anno, inoltre, le vendite di diamanti angolani sono cresciute del 18% e la produzione del 4%, attestandosi oltre i 4,25 milioni di carati. Numeri che confermano la posizione del paese tra il leader del settore: è tra i primi cinque produttori per valore e tra i primi dieci per quantità.
Di fronte anche al calo dei prezzi del petrolio, gli sforzi del governo per sviluppare ulteriormente il settore vanno in più direzioni, dai sondaggi esplorativi (come quelli nel sito di Lulo, nella provincia settentrionale di Lunda Norte, che potrebbe presto diventare la miniera più grande del paese) al tentativo di sviluppare industrie associate. Ne sono un esempio quella del taglio delle pietre preziose e la produzione di gioielli in cui si tenta di coinvolgere artigiani locali.
I diamanti, insomma, come ‘nuovo petrolio’, almeno in parte: uno scenario ben diverso da quello che portò decenni fa le pietre angolane all’attenzione del mondo. Durante la guerra civile (1975-2002), infatti, queste erano utilizzate per finanziarsi dalle parti in conflitto. Per bloccare – qui e in altre parti del mondo – il fenomeno dei diamanti di sangue fu creato il cosiddetto Kimberley Process, l’organismo internazionale che – per rotazione – l’anno prossimo sarà presieduto proprio dall’Angola. – Misna