Il lavoro forzato genera ogni anno nel mondo profitti per circa 150 miliardi di dollari, un valore tre volte superiore rispetto a quello stimato nel 2005. Più della metà di questi introiti deriva dallo sfruttamento sessuale a fini commerciali. I dati sono contenuti in un rapporto presentato oggi dall’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo). E mostrano anche che le persone, adulti e minori, soggette a lavoro forzato, tratta e schiavitù moderna in tutto il mondo erano, alla fine del 2012, circa 21 milioni. Di queste 14,2 milioni impiegate nell’agricoltura, nelle costruzioni, nelle estrazioni di minerali e nel lavoro domestico; 4,5 milioni nello sfruttamento sessuale; 2,2 milioni asserviti in istituzioni statali come le prigioni o da militari o paramilitari.
Le donne e le ragazze rappresentano la quota maggiore del totale: 11,4 milioni (55%) rispetto ai 9,5 milioni di uomini e ragazzi (45%). Gli adulti sono più colpiti rispetto ai bambini: 15,4 milioni (74%) dei lavoratori forzati hanno più di 18 anni mentre i minori sono circa 5,5 milioni (26%). La regione dell’Asia e del Pacifico ha di gran lunga il maggior numero di vittime, con 11,7 milioni (56%), seguita dall’Africa con 3,7 milioni (18%) e da America Latina e Caraibi con 1,8 milioni (9%).
In Asia, è ancora molto diffuso il lavoro forzato in agricoltura, come conseguenza di debiti accumulati da famiglie povere o con salari da fame che obbligano molti a prendere prestiti, da privati, con tassi di interessi altissimi che incatenano per anni e anni intere famiglie in questo circolo vizioso. In Africa, le forme tradizionali “ di schiavitù” sono ancora prevalenti in alcuni paesi. Esse portano a situazioni in cui intere famiglie, adulti e bambini, uomini e donne, sono costretti a lavorare nei campi dei proprietari terrieri in cambio di vitto e alloggio. In America Latina, il caso di lavoratori assunti nelle zone povere e costretti a lavorare in piantagioni o in zone di deforestazione è stato ampiamente documentato.
Solo di recente è stato invece rilevato che il settore della pesca è altamente a rischio. Secondo l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (Fao), circa 54,8 milioni di persone sono costrette a lavorare nella produzione primaria di pesce, perlopiù (38,3 milioni) su pescherecci dove una gran parte dei lavoratori sono migranti originari di paesi poveri o in via di sviluppo. La necessità di andare sempre più lontano dalle coste per raggiungere zone di pesca più abbondante obbliga a impegni su periodi di tempo molto più lunghi. Inoltre l’isolamento derivante da questo nuovo tipo di pesca, favorisce lo sfruttamento sul lavoro.
Le forze che alimentano continuamente il lavoro o la schiavitù forzata sono i “brokers”, usurai e gruppi criminali che approfittano con inganni, abusi e frodi di persone vulnerabili. A loro si aggiungono individui o imprese che non pagano o che sottopagano i lavoratori assunti.
Tra i dati ancora difficili da registrare restano quelli legati al traffico degli organi. Questo sfruttamento specifico non è ancora coperto dalle convenzioni dell’Organizzazione mondiale del lavoro.
“Il lavoro forzato – ha dichiarato Guy Ryder, direttore generale dell’Ilo – è un male per il business e lo sviluppo e soprattutto è male per le sue vittime. Il nostro nuovo rapporto aggiunge nuova urgenza agli sforzi per sradicare, il più presto possibile, questa pratica fondamentalmente malvagia ma estremamente redditizia”. – Misna