22/09/13 – Kenya – Al-Shabaab, gioventù, ecco i terroristi che hanno attaccato il centro commerciale

di AFRICA

Si chiamano al–Shabaab. Il loro nome – in arabo significa la gioventù – non è casuale. Perché sui giovani, spesso bambini strappati alle loro famiglie, sottoposti a un incessante indottrinamento nelle madrasse e poi addestrati nei campi dei mujaheddin, fondano l’ossatura delle loro spietate milizie. Shabaab. Nonostante le recenti sconfitte inflitte dall’esercito del Kenya a sud della Somalia, e dai militari dell’Unione Africana insieme a quelli dell’Etiopia nel centro del Paese, restano ancora oggi uno dei movimenti più organizzati nella costellazione dei gruppi estremisti legati ad al-Qaeda.

Dopo aver perso nel settembre del 2012 Kismajo, centro nevralgico a sud, e la capitale Mogadiscio pochi mesi prima, il movimento ha cambiato strategia, passando a tecniche di guerriglia e intensificando lo strumento principe del net work di al Qaeda: gli attentati kamikaze. Il loro esercito di aspiranti martiri sembra inesauribile.

Il gravissimo attentato a Nairobi non è il primo in un Paese al di fuori dal territorio somalo. Gli Shabaab hanno colpito più volte il Kenya, reo di aver scatenato un’offensiva contro di loro nelle regioni meridionali della Somalia, e l’Uganda, i cui soldati costituiscono da anni l’ossatura del contingente dell’Unione africana (Amisom) a Mogadiscio insieme a quelli del Burundi. Proprio a Kampala, nel 2010, i kamikaze di Shabaab colpirono un ristorante etiope gremito di gente che assisteva una partita del Mondiale di calcio: le vittime furono 74.

Prima che Kenya ed Etiopia arrivassero in soccorso dell’Amisom, gli Shabaab erano prossimi a conquistare l’intera Somalia centro meridionale.

Nel giugno del 2009, nessun altro movimento estremista islamico esercitava un controllo assoluto su un territorio così vasto: otto regioni su nove della Somalia centro meridionale. Un’area più estesa dell’Italia. Nel loro regno avevano a disposizione due aeroporti e tre porti. I loro nemici, l’esercito del governo somalo di transizione e quello poco addestrato delAmisom, restavano confinati in pochi quartieri di Mogadiscio. L’indifferenza della Comunità internazionale verso una crisi che appariva confinata alla Somalia, è stata il fattore principale che ha agevolato la loro ascesa.

Ancora oggi c’è chi li definisce un movimento affiliato ad al–Qaeda. Ma è sempre maggiore il numero di chi li considera parte integrante del network di Osama Bin Laden. Per al-Qaeda il turbolento Corno d’Africa è una regione allettante. Lo conferma la migrazione jihadista in Yemen e Somalia. Il cui obiettivo finale è creare un ponte tra i due paesi e controllare lo strategico Golfo di Aden.

Come si è arrivati a questo punto? Siamo a cavallo tra il 1996 e il 1997. Una compagine di movimenti islamisti comprende che è prematuro imporre la propria ideologia con la forza. La Somalia è un paese allo stremo, in balia dei signori della guerra. Mancano cibo e medicinali. Gli integralisti, nelle cui file figurano i futuri Shabaab,iniziano ad erogare una sorta di Welfare. In un paese dove il 60% ha meno di 18 anni, capiscono l’importanza che gioca l’educazione. Tra l’indifferenza nascono migliaia di madrasse. Gli allievi di ieri sono i giovani jhiadisti di oggi la cui massima aspirazione è il martirio. Sono loro che rapiscono gli operatori umanitari stranieri, quando non li uccidono. Che costringono la popolazione somala a osservare una rigidissima interpretazione del Corano nel loro territorio. Dove sono banditi la musica e lo sport e sui mezzi pubblici uomini e donne (rigorosamente coperte) viaggiano separati. Dove i furti sono puniti con le amputazioni e gli adulteri con la lapidazione.

Un’ascesa frutto di un processo graduale. Nel gennaio del 2005 il momento è maturo per venire alla luce. Gli Shabaab devastano il cimitero italiano di Mogadiscio, simbolo cristiano, costruendovi sopra una rudimentale moschea in lamiera. Da quel momento dispongono di una base importante di addestramento ideologico e militare. Comincia a circolare il loro nome. Ai loro vertici si trovano jihadisti tornati dall’Afghanistan. Come Ahmed Godane, autoproclamatosi emiro degli Shabaab. Stesso dicasi per e Mukhtar Robow, altro leader del movimento, e Ibrahim Hajy “al-Afghani”. Aden Hasci Ayro, l’ideatore degli Shaabab ucciso da un missile americano nel maggio del 2008, si era addirittura formato nei campi di Bin Laden durante il regime dei talebani. Saleh al-Somali invece faceva spola con il Corno d’Africa per organizzare la migrazione di jihadisti stranieri in Somalia e Yemen. Viene ucciso lo scorso dicembre in Pakistan da un missile americano. Gli Shabaab cominciano a organizzare la struttura, che rifiuta l’identità clanica, e in alcuni casi la sfrutta a proprio vantaggio. Attendono il momento propizio.

Arriva nel 2006. La Somalia è vittima di una strisciante guerra civile che si trascina dal 1991, anno della caduta del dittatore Siad Barre. Una formazione eterogenea, l’unione delle Corti islamiche, che include diversi membri moderati, sfida i signori della guerra. I nemici contro cui gli Usa hanno combattuto nel 1993 sono così riciclati come alleati. Nella battaglia di Mogadiscio tra le milizie delle Corti si distingue un gruppo coraggioso e organizzato; gli Shaabab. Sono rapidi, efficienti e molto discplinati. Una virtù sconosciuta nella centenaria storia delle milizie somale. Le milizie dei signori della guerra, perlopiù mercenari, sono sbaragliate. Le Corti conquistano gran parte della Somalia meridionale. Ma una volta venuto meno il nemico comune il rapporto tra Shaabab e Corti si incrina. Nel dicembre del 2006 ecco un’altra occasione favorevole. Il potente esercito etiope invade la Somalia e in cinque giorni conquista Mogadiscio. I membri delle Corti riparano all’estero. Restano gli Shabaab, dichiarati dagli Usa organizzazione terroristica. Con una guerriglia strisciante costringono l’invasore etiope a ritirarsi nel gennaio 2009, in quello che viene ricordato l’Iraq africano di Addis Abeba. Gli Shabaab non hanno più rivali. Si riappropriano del territorio. * Roberto Bongiorni – Il Sole 24 ore

 

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