I nuovi combattimenti tra le forze rimaste fedeli al presidente Salva Kiir e i gruppi armati raccoltisi intorno al suo ex-vice-presidente Riek Machar rendono di fatto l’accordo per il cessate-il-fuoco siglato tra le parti ad Addis Abeba il mese scorso una lettera morta, rischiando anzi di coinvolgere altri attori regionali nella crisi.
Gli scontri, che in realtà non si sarebbero mai arrestati del tutto, sono ripresi con forza la settimana scorsa nella città di Malakal, il capoluogo dello stato settentrionale ricco di petrolio dell’Upper Nile, definita, da fonti sul posto, ormai come “una città fantasma” dalla quale tutti gli abitanti sono fuggiti e dove sono rimasti soltanto soldati e ribelli che si combattono tra loro.
Le due fazioni in lotta continuano ad accusarsi reciprocamente di essere responsabili dell’ennesima violazione della tregua, mentre l’Uganda – che aveva inviato il suo esercito sin dall’inizio della crisi a combattere al fianco delle truppe regolari di Salva Kiir – ha ritirato la propria disponibilità a richiamare il proprio contingente dal territorio sud-sudanese entro i prossimi due mesi, espressa in un primo momento dopo le continue pressioni ricevute dalla comunità internazionale. Anzi, a causa dei nuovi combattimenti, il portavoce militare ugandese ha dichiarato che le truppe di Kampala resteranno ancora a lungo in Sud-Sudan e potrebbero inquadrarsi nella forza d’intervento rapida – l’African Capacity for Immediate Response to Crisis (ACIRC) – che l’Unione Africana avrebbe intenzione di dispiegare a Juba a partire dal prossimo aprile.
Oltre all’Uganda, la crisi sud-sudanese ha già attirato altri quattro paesi della regione, Kenya, Etiopia, Sudan ed Eritrea, ma minaccia di coinvolgere presto anche Rwanda e Tanzania, che detengono importanti relazioni commerciali con Juba.
Mentre l’Uganda resta per il momento l’unico paese attivo sul fronte militare, il Kenya – che nel 2005 aveva ospitato i negoziati tra Khartoum e Juba che portarono alla firma del Comprehensive Peace Agreement (CPA), in seguito al quale si svolse il referendum per l’indipendenza del Sud Sudan – mantiene un ruolo diplomatico di primo piano.
L’Etiopia, che ospita invece in queste settimane i negoziati tra le delegazioni di Salva Kiir e Riek Machar, si propone come principale mediatore nella crisi in corso, ritenendo la stabilità del Sud Sudan una priorità strategica in termini di sicurezza regionale e accesso alle risorse naturali, come per esempio le acque del fiume Nilo. Proprio il ruolo dell’Etiopia come mediatore ha richiamato l’attenzione dell’Eritrea, suo nemico storico, che ha avviato una serie di consultazioni dirette con il governo sudanese di Khartoum sullo sviluppo dei combattimenti. Il Sudan è infatti direttamente colpita dagli scontri in corso nel paese vicino, a causa dei suoi interessi nei blocchi petroliferi del Sud, le cui attività di estrazione sono ora ferme.
Sono molti quindi gli interessi dei paesi della regione per evitare un ulteriore allargamento della crisi, anche se a causa dei combattimenti i negoziati per individuare una soluzione politica, che sarebbero dovuti cominciare due settimane fa, sono in una fase di stallo.
Tutto ciò ha gravi conseguenze sulla popolazione civile, come sottolinea padre Deogratias Rwezaura, direttore regionale per l’Africa orientale del Jesuit Refugee Service (JRS). “La crisi umanitaria ha già assunto una dimensione regionale, perché se all’interno del territorio sud-sudanese gli sfollati sono più di 800.000, almeno 170.000 sono coloro che sono scappati per recarsi nei paesi vicini” spiega ad Atlas, che lo ha raggiunto nel suo ufficio a Nairobi, Rwezaura guardando sul computer gli ultimi dati a sua disposizione. “La maggior parte dei rifugiati, poco meno di 80.000, sono andati in Uganda – continua – altri 42.000 circa sono scappati in Etiopia, poco più di 30.000 hanno trovato rifugio nelle regioni meridionali del Sudan, dove però noi come JRS non abbiamo possibilità di accesso, ed altri 20.000 si trovano ora in Kenya, quasi tutti questi ultimi ospiti presso il campo profughi di Kakuma”.
Sottolineando come questi numeri mostrino con evidenza l’inefficacia sul terreno dei negoziati in corso e del precedente accordo per il cessate-il-fuoco, padre Rwezaura aggiunge di ritenere come sia pressoché impossibile che le persone scappate finora siano disposte a tornare se le notizie che appaiono sui media riferiscono soltanto di ulteriori combattimenti e che quindi sia invece molto più probabile che il numero dei rifugiati sia destinato ad aumentare.
Il JRS in Africa orientale è presente in cinque paesi: Kenya, Etiopia, Uganda, Sudan e Sud Sudan ed è quindi direttamente coinvolto a livello regionale dalla crisi in corso, tuttavia padre Rwezaura ricorda come le attività dell’organizzazione cattolica internazionale non siano legate direttamente alla gestione delle emergenze, ma si concentrino piuttosto nel garantire sostegno psicologico e sociale alle attività d’istruzione destinate ai rifugiati.
“Ovviamente in una situazione del genere cerchiamo di garantire il nostro supporto alle altre organizzazioni che si occupano della gestione dell’emergenza, riempendo quei vuoti che esistono – aggiunge il direttore regionale del JRS –Ad esempio, dal momento che adesso è impossibile fornire attività d’istruzione, cerchiamo di fornire il nostro sostegno all’assistenza psicologica e sociale per cercare di aiutare i rifugiati a superare il trauma che sono stati costretti a vivere. Nell’immediato futuro, l’intenzione è di poter essere più dinamici ed estendere i servizi che già garantivamo, per esempio presso il campo di Kakuma dove siamo presenti dal 1994 e dove adesso abbiamo intanto allestito nuove tende e nuove strutture per la prima accoglienza”.
Le preoccupazioni più grandi riguardano infatti l’approssimarsi, tra circa un mese, della stagione delle piogge che, unite alle condizioni di sovraffollamento dei campi profughi, potrebbe rappresentare una miscela emergenziale. In particolare preoccupa la situazione del campo profughi di Kakuma, in Kenya, che al momento ospita più di 140.000 su una capacità di circa 100.000, e che rischia di essere teatro di diffusione di malattie legate all’acqua nel periodo delle piogge.* Michele Vollaro – Atlasweb