L’epidemia di Ebola in Africa “è stata fuori controllo per mesi, ma la comunità sanitaria internazionale ci ha messo troppo tempo a reagire”. E anche ora “la risposta internazionale al virus resta pericolosamente inadeguata”.
Anja Wolz, operatrice della ong francese Medici senza frontiere, ha lavorato per 7 settimane come coordinatrice infermiera in un centro di assistenza nel distretto di Kailahun in Sierra Leone. Ha vissuto “faccia a faccia” con l’Ebola e denuncia senza mezzi termini le falle nella gestione di un’emergenza che si aggrava di ora in ora. La sua testimonianza è riportata sulla rivista ‘Nejm’.
Un’esperienza “frustrante e deludente”, scrive la donna. Giornate scandite da nuovi arrivi e nuovi morti, con l’unica gioia di dimettere i pochi “fortunati” che ce l’hanno fatta solo perché “erano immuni al ceppo che li ha infettati”. Il bilancio ufficiale dell’epidemia, che dall’Africa occidentale si è estesa a quella centrale arrivando alla Repubblica Democratica del Congo, sfiora ormai i 1.500 decessi, di cui 392 in Sierra Leone. Ma il sospetto è che i numeri siano fortemente sottostimati.
“Ogni giorno vediamo persone morire”, spiega l’operatrice di Msf. “Sicuramente muoiono di Ebola, ma non vengono conteggiate dal ministero della Sanità perché la causa non è stata confermata dai test di laboratorio. Il sistema di sorveglianza epidemiologica è disfunzionale. Abbiamo bisogno di definire la catena dei contagi per poterli fermare, ma ci mancano dati chiave”. L’infermiera avverte: “Nessuna singola organizzazione, da sola, ha la capacità di gestire tutto quanto è necessario per fermare l’epidemia. Ci servono persone che ci ‘mettano le mani’ e che lavorino sul campo. Abbiamo bisogno di stare un passo avanti all’epidemia, invece siamo cinque passi indietro” a inseguirla.
Il centro di Kailahun, vicino ai confini con Liberia e Guinea, ha 80 letti di cui 64 occupati. Quattro dei malati sono bambini minori di 5 anni. “Ieri ci sono stati otto nuovi arrivi” e “oggi abbiamo già visto due pazienti morire”, racconta l’operatrice di Msf. Però “siamo fortunati perché piove, e quindi l’equipaggiamento protettivo da indossare sarà più sopportabile”. Per evitare il contagio “nessun centimetro quadrato di pelle deve restare scoperto”, perché anche un solo errore “può essere fatale”. Nel caso in cui qualcosa si bucasse “portiamo due paia di guanti, due maschere e un pesante grembiule che copre tutta la parte superiore della tuta che avvolge il corpo per intero”. Una ‘gabbia’ che “nessuno dovrebbe indossare per più di 40 minuti”. Ma nei reparti di isolamento il tempo sembra non bastare mai. Nell’area di massima sicurezza c’è anche una tenda per i malati più gravi ed “è lì che cerco di passare la maggior parte delle mie ore – continua l’infermiera – Anche solo per tenere la mano ai pazienti, per dar loro degli antidolorifici, per sedere sui letti e non farli sentire soli”.
L’esperienza più “angosciante” è con i bambini. “Mi sono presa cura di un bimbo di 6 anni e della sorellina di 3. I genitori e la nonna erano morti di Ebola”, racconta ancora l’infermiera di Msf. Ad accudirli c’era un’ostetrica del villaggio, ma poi “anche i bambini hanno iniziato mostrare sintomi e sono stati mandati qui. Sfortunatamente era troppo tardi. Quando il ragazzino è morto abbiamo cercato di consolare e calmare la sorella, ma attraverso gli indumenti protettivi era difficile anche solo parlarle. Lei è morta il giorno dopo. Ed è morta anche la levatrice”. Fra gli ‘orfani del virus’ c’è anche chi ha smesso di contare le persone che ha perduto: “Uno – scrive Anja – mi ha detto che non si ricordava quanti parenti l’Ebola gli avesse portato via. Pensava 13, ma l’unica cosa di cui era certo era di essere rimasto solo al mondo”. E nell’inferno dell’Ebola spesso non si riesce neppure a raggiungere un ospedale. “Il sistema di segnalazione dei casi sospetti non funziona come dovrebbe e il ministero della Sanità ha appena quattro ambulanze per un distretto di 470 mila persone”. Se una sirena si accende, è per un ‘fortunato’ su 120 mila. – Adnkronos