Settimane di combattimenti hanno inferto un duro colpo all’industria del petrolio, principale ricchezza del Sud Sudan, potenzialmente in grado di favorire un cammino di sviluppo: lo dicono alla MISNA esperti del settore, sottolineando come il dato emerga nonostante le reticenze del governo e delle società straniere.
Secondo Edgar Wesselink, ricercatore della Coalizione europea per il petrolio in Sudan (Ecos), gli scontri tra i reparti dell’esercito fedeli al presidente Salva Kiir e le unità ribelli passate con il suo ex-vice Riek Machar si sono concentrati proprio nelle regioni dove sono situati i giacimenti più ricchi. “Nello Stato di Unity la produzione è bloccata del tutto – sottolinea l’esperto – mentre in quello di Upper Nile è diminuita in modo sensibile, di circa 50.000 barili al giorno”. Quando è divenuto indipendente da Khartoum, nel 2011, il Sud Sudan estraeva 350.000 barili al giorno. Circa 200.000 nello Stato di Unity e il resto in quello di Upper Nile. In entrambe le regioni le concessioni principali sono assegnate a un consorzio formato dai cinesi di China National Petroleum Corporation, dai malesi di Petronas e dagli indiani di Oil and Natural Gas Corporation.
Nell’ultimo mese, però, le multinazionali hanno rivisto i loro piani. Allontanando il personale non essenziale alla gestione degli impianti e affidando la tutela dei pozzi allo Special Oil Security Batallion, un’unità specializzata dell’esercito. “Decisioni del genere – sottolinea Wesselink – sono state determinate anche dalla difficoltà a prevedere le mosse dei combattenti, in particolare delle unità ribelli”. Destabilizzanti sono stati gli assalti a due dei giacimenti più ricchi del paese, a Adar Yale e a Palogue.
Secondo Wesselink, “di questi episodi il governo ha parlato poco o nulla perché il greggio è questione di sicurezza nazionale”. A tradire la realtà, però, sono comunicazioni giunte a distributori e intermediari. Secondo le quali a gennaio le consegne del greggio di Upper Nile arriveranno in ritardo e saranno comunque inferiori rispetto ai mesi precedenti di almeno 50.000 barili al giorno. Il problema, d’altra parte, non riguarda solo il breve periodo. Ne è convinto anche Luke Petey, autore del volume “I nuovi re del greggio: la Cina, l’India e la corsa mondiale al greggio del Sudan e del Sud Sudan”. La sua tesi, esposta in un editoriale apparso sul quotidiano Sudan Tribune, è che se il conflitto non sarà superato al più presto la produzione petrolifera di Juba potrebbe precipitare nell’arco di dieci anni a quota 100.000 barili al giorno. “Se i combattimenti dovessero costringere a bloccare le esportazioni lungo il condotto di 1300 chilometri che collega i pozzi di Unity e Upper Nile ai terminali sul Mar Rosso – sottolinea Petey – le tubature sarebbero rovinate per sempre”.
Anche se questo non accadesse, è improbabile scontri armati sia pure intermittenti non spingano le multinazionali a sospendere nuovi investimenti. Ed è proprio di investimenti che l’industria petrolifera del Sud Sudan ha bisogno. Secondo Petey, per ammodernare le installazioni e scongiurare un ulteriore calo produttivo nello Stato di Unity servirebbero 300 milioni di dollari a pozzo. “Il petrolio vale il 98% delle entrate dello Stato – sottolinea l’esperto – e se sfruttato al meglio potrebbe favorire lo sviluppo dell’agricoltura e di altri settori dell’economia, contribuendo a migliorare le condizioni di vita in uno dei paesi più poveri al mondo”. – Misna