Civili in fuga dalla guerra che quotidianamente si sviluppa per le strade di Kismayo. Non ci sono strutture per curare i feriti né un piano per soccorrerli. Inutili gli appelli per il cessate il fuoco lanciati dal Governo di Mogadiscio e inutili le raccomandazioni per una soluzione pacifica indirizzate dal rappresentate ONU per la Somalia Nicholas Kay. Le forze ONU, rappresentate sul posto dalle truppe del Kenya, non sono imparziali e parteggiano apertamente per la presidenza di Modobe venendo meno al dovere di soccorrere i feriti della parte avversa e sedare il conflitto.
Il Governo Federale di Mohamud deve protestare vivacemente con l’ONU pretendendo che il Kenya rispetti il ruolo di peacekeeping o esca dalla Somalia perché indebolisce la lotta al terrorismo nel momento in cui sta dando i suoi frutti migliori.
Intanto a Barawe il terrore si è sommato al terrorismo in una guerra interna senza esclusione di colpi. Il capo indiscusso degli Al Shabaab, Godane, è entrato in rotta di collisione con quasi tutti gli altri capi e manda i suoi miliziani ad arrestarli per processarli e condannarli a morte per presunte violazioni della Sharia.
Per sfuggire a questo destino due capi sono fuggiti da Barawe nei giorni scorsi: Hassan Dahir Aweys ha preso la via del mare recandosi a nord di Mogadiscio, nella sua terra d’origine, dove è stato arrestato. Ora è in cella a Mogadiscio; Mukhtar Robow, con tutti i suoi uomini, si è diretto a Baidoa, nel centro della Somalia meridionale.
Ma altri non sono riusciti a sfuggire alla vendetta di Godane.
Ieri sono stati uccisi due dei più importanti comandanti di Al Shabab, tra cui uno con cinque milioni di dollari di taglia sul capo offerti dagli USA, laddove per Godane se ne offrono sette, appena due in più.
Si tratta di Ibrahim Haji Jama Mead, meglio conosciuto con il soprannome di Al-Afghani (l’afgano) a causa della sua formazione religiosa in quel paese e per la lotta lì condotta affianco ai guerriglieri talebani. Secondo fonti riservate, all’inizio di giugno Godane aveva ordinato l’arresto di Al Afghani e di un’altra dozzina di leader. Il processo sommario per Al Afghani non si sarebbe concluso positivamente e ieri ci sarebbe stato l’epilogo cruento della sua esecuzione.
L’altro capo ucciso dagli uomini di Al Shabab è Abul Hamid Hashi Olhayi, un altro capo anziano e fondatore dello stesso movimento Al Shabab.
Ma il portavoce degli Shabab Abdulaziz Abu Musab, parlando con l’agenzia di stampa AFP, ha negato l’arresto e la successiva esecuzione ammettendo soltanto che i due capi sarebbero morti durante gli scontri a fuoco accesisi per opporsi al tentativo della loro cattura per ordine del tribunale. Musab ha pietosamente aggiunto che le vedove sono state informate in modo che possano indossare gli abiti del lutto.
La settimana scorsa altri due capi di Al Shabab erano morti a Barawe: uno di origini sudanesi ed uno di origine keniota.
Le morti e le fughe mostrano le ampie fratture all’interno del movimento fondamentalista su due aspetti fondamenti della sua politica. Da una parte l’atteggiamento da tenere nei confronti del Governo Federale della Somalia che, dal canto suo, ha ribadito ancora nei giorni scorsi di essere disposto a dialogare con i somali di Al Shabab che abbandoneranno la lotta armata; dall’altra parte sottolineano la volontà di Godane di annientare l’opposizione al suo comando e così consolidare la leadership più radicale all’interno del movimento.
Nonostante queste fratture interne, tuttavia, Al Shabab rimane un movimento molto pericoloso e temibile. Anche se non sarà in grado di conquistare l’intero paese, potrà renderlo ingovernabile in vaste aree. In appena due mesi, tra aprile e maggio scorsi in due attentati kamikaze a Mogadiscio, uno alla Suprema Corte di giustizia ed uno all’U.N.P.D., Al Shabab ha procurato 45 morti e innumerevoli feriti. – la Repubblica