“L’acqua è preziosa e bisogna saperla usare” dice monsignor Dominic Kimengich, vescovo di Lodwar, la diocesi del Lago Turkana, il più grande bacino alcalino al mondo, un occhio azzurro circondato da sabbia scura e comunità nomadi ciclicamente alle prese con siccità e carestie. La MISNA lo intervista a Roma, dove è venuto a chiedere sostegno per i programmi sociali di una Chiesa di frontiera, al servizio di popoli che potrebbero dover affrontare presto grandi cambiamenti.
La conversazione comincia dalla scoperta di un’immensa falda acquifera, proprio nella regione del Lago Turkana. Secondo gli scienziati di Radar Technologies International, che hanno effettuato la rilevazione con l’ausilio di strumentazioni satellitari e radar, la falda sarebbe in grado di soddisfare il fabbisogno idrico del Kenya per 70 anni.
Monsignore, pare che sotto il territorio della sua diocesi ci siano 250 miliardi di metri cubi d’acqua…
“E acqua buona, che potrebbe essere utilizzata per irrigare i campi. La nostra terra è arida ma anche piatta e dunque, in determinate condizioni, adatta alle coltivazioni. Se l’oro blu ci fosse davvero, il deserto potrebbe diventare fertile e produrre molto. C’è un problema però…”
Quale?
“L’acqua bisogna saperla utilizzare. Sarà necessario creare sistemi di irrigazione efficienti e prepararsi a cambiamenti per certi versi inevitabili. Circa il 60% dei 680.000 abitanti della mia diocesi sono pastori nomadi, che si spostano in cerca di pascoli e acqua per il bestiame. Se la falda fosse davvero utilizzabile potrebbero fermarsi, cominciare a coltivare, mandare i bambini a scuola. Le donne non dovrebbero più percorrere chilometri e chilometri per riempire i loro secchi e avrebbero la possibilità di dedicare più tempo ai figli e al lavoro. Un altro cambiamento, importante e positivo, riguarda la salute. La penuria d’acqua è all’origine di diverse malattie. Come il tracoma, un’infezione batterica della congiuntiva e della cornea che colpisce chi può lavarsi solo di rado, rendendolo cieco”.
Nella regione del Lago Turkana sono stati scoperti anche giacimenti di petrolio. Un’altra buona notizia?
“Il petrolio può essere una benedizione ma anche – e l’Africa lo ha dimostrato – una maledizione. Speriamo che i pozzi non finiscano per alimentare i conflitti tra le comunità e che arrivino investimenti, siano costruite infrastrutture e garantiti posti di lavoro. Finora i Turkana e gli altri popoli della regione sono stati ignorati dalla politica”.
È fiducioso in un cambiamento?
“Qualche piccola novità c’è già stata. Tullow Oil, una società anglo-irlandese che ha ottenuto in concessione diversi giacimenti, ha offerto borse di studio e assunto giovani come guardiani delle installazioni petrolifere. Sulle forniture d’acqua e le scuole, servizi che rientrano nella cosiddetta ‘responsabilità sociale delle aziende’, è in corso una trattativa con i capi tradizionali. Il nodo fondamentale, però, è che i soldi del petrolio siano investiti nello sviluppo economico e sociale; e che i pozzi vengano sfruttati rispettando l’ambiente, con le precauzioni necessarie a evitare l’inquinamento e i disastri ecologici spesso associati all’attività estrattiva”.
Quali sono le priorità della Chiesa su un piano pastorale?
“L’impegno numero uno è la lotta alla povertà perché la gente, semplicemente, non ha nulla. Abbiamo avviato programmi per la sicurezza alimentare, che quasi sempre prevedono anche la distribuzione di prodotti essenziali. L’altro aspetto cruciale è l’istruzione. I figli dei pastori non vanno a scuola e questo rappresenta una sfida. Di recente abbiamo aperto due istituti, pensati per loro e in genere per tutti i bambini vulnerabili. Il terzo pilastro dell’azione pastorale, infine, riguarda la sanità. Molte persone muoiono a causa di malattie curabili solo perché non ci sono dispensari o centri di assistenza. Uno degli impegni che sta dando più frutti è quello degli ospedali mobili, gli unici in grado di raggiungere le zone più remote”.
La scarsità d’acqua e l’estrema dipendenza dall’allevamento restano una fonte di conflitto tra le comunità?
“La situazione è difficile perché le armi, semplicemente, sono dappertutto. Nelle zone al confine con l’Uganda, il Sud Sudan o l’Etiopia, i furti di bestiame e le violenze che ne conseguono sono ancora frequenti. Come Chiesa, in collaborazione con le diocesi e i vicariati confinanti di Torit, Sodo, Gimma Bonga e Moroto, abbiamo avviato un programma di sensibilizzazione alla pace. Si chiama Peace and Crossboard Evangelisation e prevede un impegno congiunto per la demarcazione delle linee di confine in aree di tensione. Una delle priorità è il cosiddetto Triangolo di Ilemi, un’area di 14.000 chilometri quadrati contesa da Sud Sudan, Kenya ed Etiopia. A Roma sono venuto a chiedere aiuto, anche per questo”. – Misna