Etiopia – Rimpasto di Governo, spazio agli oromo

di Enrico Casale
Hailemariam Desalegn

Il primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn, ha annunciato martedì scorso un ampio rimpasto di governo che sembrerebbe aprire alle istanze del gruppo etnico oromo, le cui proteste vanno avanti ormai da un anno mettendo a serio repentaglio la stabilità interna del paese del Corno d’Africa. Sono di etnia oromo, infatti, il nuovo ministro degli Esteri, Workeneh Gebeyehu, e il nuovo ministro delle Comunicazioni, Negeri Lencho. Il primo ha già ricoperto in passato la carica di ministro dei Trasporti, mentre il secondo è un ex insegnante di giornalismo all’Università di Addis Abeba.

L’ex portavoce del governo, Getachew Reda, considerato un “stella nascente” del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf), la coalizione al potere dal 1991, paga invece la scarsa popolarità dovuta alla gestione delle proteste da parte del governo ed è costretto a lasciare il suo posto allo stesso Lencho, mentre la sostituzione dell’ex ministro degli Esteri, Tedros Adhanom, era già nell’aria da tempo dal momento che correrà per la carica di direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Dei 30 nuovi ministri attualmente in carica, solo nove mantengono la loro posizione nel nuovo esecutivo: tra questi ci sono il vicepremier Demeke Mekonnen, il ministro della Difesa, Siraj Fegessa, e il ministro delle Telecomunicazioni, Debretsion Gebremichael.

La composizione del nuovo governo, che include solo tre donne, è stata già approvata dal parlamento, interamente composto da esponenti dell’Eprdf. Il primo ministro Desalegn, da parte sua, ha sottolineato che il rimpasto è basato sulle competenze piuttosto che sulla “fedeltà di partito”. Qualunque siano le motivazioni, comunque, si tratta di una svolta resa necessaria dopo che la nuova recente ondata di proteste ha costretto le autorità di Addis Abeba a proclamare il mese scorso lo stato d’emergenza che prevede, tra le altre cose, la possibilità di detenzione senza mandato d’arresto e il divieto di utilizzare le piattaforme di social media, di organizzare manifestazioni nelle scuole e nelle università e il divieto per i diplomatici di viaggiare per più di 40 chilometri lontano da Addis Abeba in assenza di un permesso da parte del governo.

La decisione di imporre lo stato di emergenza è stata fortemente criticata dal governo degli Stati Uniti, che l’ha definita una “tattica autolesionista” basata sulla repressione del dissenso. Secondo quanto denunciato nelle scorse settimane dal portavoce del dipartimento di Stato Usa, John Kirby, lo stato d’emergenza autorizza infatti “la detenzione senza un mandato, limitando la libertà di parola e vietando raduni pubblici. Anche nel caso in cui queste misure fossero destinate a ripristinare l’ordine – ha aggiunto il portavoce – esse metterebbero a tacere le voci indipendenti e interferirebbero con i diritti dei cittadini etiopi”, il che rappresenta una “tattica autolesionista” che rischia di peggiorare la situazione nel paese.

Per cercare di arginare l’ondata di proteste – che secondo le stime delle organizzazioni per i diritti umani hanno portato alla morte di oltre 500 persone e all’arresto di oltre 1.600 persone – già la scorsa settimana le autorità etiopi avevano lanciato un segnalo di distensione rilasciando circa duemila persone sospettate di essere coinvolte nelle recenti violenze registrate in diverse parti del paese. Il gruppo è stato liberato dopo “essere stato rieducato”, ha dichiarato il ministro della Difesa Siraj Fegessa, senza tuttavia specificare il numero delle presone ancora in detenzione.

Lo scorso 20 ottobre più di 2.600 persone sono state arrestate durante lo stato di emergenza proclamato dalle autorità lo scorso 9 ottobre a seguito della morte di almeno 55 persone in una marcia indetta per una festività religiosa trasformatasi in una protesta anti-governativa nella regione di Oromia. Le proteste oromo sono scoppiate nel novembre 2015 contro il piano di espansione della città di Addis Abeba nella regione di Oromia. Il piano è stato in seguito abbandonato, ma le proteste dei manifestanti di etnia oromo e ahmara hanno continuato ad infiammare a più riprese il paese. I dimostranti temono in particolare che i progetti del governo costringano gli agricoltori oromo, maggiore gruppo etnico del paese con alle spalle una storia piuttosto conflittuale con le autorità centrali, ad abbandonare la propria terra.

La crisi si è acuita il 23 dicembre scorso, quando la polizia ha arrestato il vicepresidente del Congresso federalista oromo (Ofc) Bekele Gerba, già in passato condannato a quattro anni di carcere perché riconosciuto dalle autorità etiopi come membro dell’Organizzazione per la liberazione dell’Oromia. Le proteste sono iniziate nella località di Ginchi, 80 chilometri a sud-ovest della capitale Addis Abeba, dopo il tentativo da parte delle autorità di abbattere una foresta per fare spazio a un progetto edilizio. In seguito, le proteste si sono estese a tutta la regione di Oromia, dove vivono 35 milioni di cittadini di etnia oromo, con i manifestanti che si sono opposti al piano di espansione dell’autorità amministrativa della capitale Addis Abeba, come previsto dal Piano di sviluppo integrato.

Nell’area inclusa nel progetto (poi abbandonato), infatti, vivono circa 2 milioni di persone, le quali temono che il piano possa portare all’espropriazione dei terreni agricoli dei residenti dell’area. A partire dalla metà di novembre, dunque, alla protesta degli studenti si si è unita quella degli agricoltori. Oltre alle proteste legate all’espansione dell’autorità amministrativa della capitale, a spingere i manifestanti a scendere in piazza è stata anche la condizione di marginalità in cui vive la popolazione di etnia oromo. Secondo quanto riporta un rapporto pubblicato di recente Hrw, i cittadini di etnia oromo sono spesso incarcerati in maniera arbitraria e accusati di appartenere al Fronte di liberazione oromo (Olf), incluso dal governo nella lista delle organizzazioni terroristiche.

La stessa Hrw ha pubblicato oggi una lettera aperta al governo etiope in cui rinnova il proprio appello per l’istituzione di un’inchiesta internazionale che metta in luce le violazioni dei diritti umani documentate durante lo stato d’emergenza imposto dal governo. “Ribadiamo il nostro desiderio di incontrare i rappresentanti del governo in Etiopia o altrove per discutere i risultati della nostra ricerca e accogliamo con favore qualsiasi informazioni specifica sulle accuse di abusi”, si legge nel documento.

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