Era forte, molto forte. Sul ring non aveva rivali. Ma aveva due «difetti»: una mamma congolese e la pelle scura. E per i fascisti, che avevano fatto della razza uno dei punti fondanti del regime, ciò era intollerabile. Così, Benito Mussolini decise di stroncare la carriera di Leone Jacovacci, il pugile nero che aveva incantato i tifosi per la sua forza e la sua agilità. Ma ora il docufilm «Il pugile del Duce», in uscita il 21 marzo, rende onore a questo campione dimenticato, raccontando la sua storia incredibile, sepolta sotto la polvere degli archivi
Leone Jacovacci, soprannominato il «nero di Roma», nacque nel 1902 in Congo da padre italiano e madre babuendi. Il papà lo portò subito in Italia, prima a Roma e poi nel Viterbese, dove fu allevato dai nonni. A sedici anni prese la via del mare: si imbarcò come mozzo e andò in Inghilterra dove adottò il nome di John Douglas Walker e si arruolò nell’esercito inglese. Scoprì il pugilato ed esordì sul ring nel 1920 con lo pseudonimo di Jack Walker, in omaggio al pugile Jack Dempsey.
Era un talento naturale. Uno di quei pugili che sembrano nati sul ring. Trasferitosi a Parigi nel 1921 (allora regno della nobile arte), infilò una serie di 25 vittorie consecutive. A quel punto decise di tornare in Italia, dove affrontò il campione italiano dei pesi medi, Bruno Frattini, al Teatro Carcano di Milano. Venne sconfitto ma, secondo i testimoni dell’epoca, quell’incontro fu truccato, perché Iacovacci si era dimostrato ben al di sopra dell’avversario.
Decise però di rimanere in Italia e di farsi riconoscere la nazionalità. Il fascismo, che in quegli anni si stava consolidando, non vedeva di buon occhio quel ragazzo «mezzosangue». Per le camicie nere, un mezzo africano non poteva essere considerato italiano. Fecero di tutto per ostacolargli la strada e impedirgli di prendere la cittadinanza. Ma, alla fine, Jacovacci vinse la sua battaglia. Ottenne il passaporto e, il 24 giugno 1928, poté sfidare il campione in carica nazionale ed europeo, Mario Bosisio, lui sì un vero «campione della razza italica», apprezzato da Mussolini e sostenuto dal regime. Quella sera, allo stadio Nazionale di Roma, davanti a 40mila spettatori e in collegamento radio con tutte le città d’Italia, Leone Jacovacci combatté benissimo e vinse, laureandosi campione europeo dei pesi medi.
Una vittoria intollerabile per il fascismo. Un nero, mezzo africano, aveva battuto il pugile fascista, l’orgoglio d’Italia. Uno smacco per Mussolini, che non voleva essere rappresentato nel mondo da un atleta così poco «italiano». Così Jacovacci venne progressivamente emarginato e fu costretto ad abbandonare l’attività sportiva
Cacciato dal ring, il «nero di Roma» dovette rifarsi una vita. Di lui, però, si sa poco. Solo che morì nel 1983 a Milano, dove aveva trovato impiego come portiere in un condominio. Fosse stato americano, la sua storia sarebbe presto diventata una sceneggiatura per un film di Hollywood. Invece l’Italia se ne dimenticò (come spesso capita). Anche se adesso il docufilm gli restituisce gli onori che merita un grande pugile sconfitto solo dal razzismo.