«È assurdo mettere in connessione la morte della bambina di Trento con la presenza nell’ospedale di bambini del Burkina Faso. La malaria non si trasmette da persona a persona. I bambini burkinabé avrebbero potuto tranquillamente giocare, accapigliarsi con la bambina italiana e non le avrebbero trasmesso alcunché. Questa polemica sulla malaria è l’esempio della scarsa conoscenza di questa e di altre malattie tropicali nel nostro Paese. D’altra parte, nelle nostre università non vengono studiate le malattie tropicali. I nostri futuri medici studiano solo quelle patologie legate al territorio e sulle quali ci sono interessi economici maggiori sulla ricerca, sulle diagnosi e sulle terapie. A chi vuoi che interessi in Italia la malaria?».
Aldo Morrone è il direttore del Dipartimento di dermatologia clinica e tropicale dell’Istituto di ricerca scientifica Gallicano di Roma. È uno dei massimi esperti italiani di medicina delle migrazioni. Quotidianamente studia patologie che alla comunità scientifica sembrano non interessare più. A lui abbiamo chiesto di fare il punto sulla polemica, tutta politica, nata dalla morte per malaria di una bambina di Trento.
Come possiamo definire le malattie tropicali?
I vecchi manuali di medicina definivano le malattie tropicali come quelle determinate dal clima e da particolari condizioni esoticità. Ma questa definizione ha fatto il suo tempo. Per esempio, in Australia, Paese subequatoriale, non esistono le malattie presenti in nazioni della stessa latitudine. Allora che cosa intendiamo per malattie tropicali? Intendiamo quelle malattie che sono legate a particolari condizioni di abbandono o di povertà strutturale e socioeconomica. Più che malattie tropicali, le definiamo «neglectic tropical deseases». Sono patologie che interessano circa due miliardi di persone, concentrate nelle aree dei Paesi tropicali più poveri. Come, appunto, la malaria che è sparita completamente in alcune parti del mondo, in altre è rimasta.
In questi anni, avete notato un aumento delle patologie tropicali in Italia?
C’è stato un aumento delle osservazioni delle malattie tropicali che è stato determinato dall’aumento del movimento di merci e materiali e, solo in seconda battuta, di persone e animali. Le persone che si spostano da un continente all’altro sono, ogni anno, 1,350 miliardi. Di questi, però, solo 250 milioni sono i migranti veri e propri. Un tempo, i migranti arrivano in ottime ottime condizioni di salute. Oggi la situazione è cambiata. Chi arriva da Asia e Africa spesso è in condizioni terribili, ma legate non a un quadro clinico personale deteriorato, ma alle tremende condizioni di viaggio che ha vissuto. Ha quindi ferite, ustioni, assideramenti, spesso portano sul corpo i segni delle violenze sessuali, ecc.
E per quanto riguarda le malattie tropicali?
Le 19 «neglectic tropical deseases» rimangono concentrate in alcune aree del pianeta e, comunque, anche nei Paesi in cui sono endemiche, colpiscono soprattutto le fasce più povere della popolazione. Quelle fasce che non hanno i mezzi per partire e venire in Europa. Pensiamo alla scabbia. In Europa non è più un problema perché è curabile ed è quasi scomparsa. In Africa, i bambini invece muoiono ancora per le complicazioni legate a questa patologia.
In una visione globale del nostro pianeta, se c’è un focolaio di malaria in una parte del pianeta, il rischio che si diffonda esiste, ma non è legato alle migrazioni quanto, piuttosto, alla rapidità degli spostamenti. Se noi investiamo per eliminare questi focolai di malaria in Asia o in Africa, faremo un investimento per l’umanità perché ridurremo il rischio per le popolazioni autoctone, ma anche per i viaggiatori. E questo vale per molte altre malattie che in occidente non esistono più.
Quindi il rischio di importare malattie tropicali non esiste…
Oggi il rischio della diffusione delle malattie tropicali arriva da un altro fenomeno che è la tropicalizzazione dei nostri ambienti, in particolari dei nostri mari. Il Mediterraneo è diventato un mare tropicale e specie marine non autoctone (flora e fauna) si sono insediate nel nostro mare. Assistiamo quindi a infezioni legate a elementi di microrganismi che un tempo non esistevano.
Come dobbiamo reagire di fronte a questi fenomeni?
Dobbiamo avere tre tipi di attenzione. Il primo è ridurre la presenza di queste malattie laddove queste sono endemiche. Se non lo facciamo, non c’è garanzia per nessuno. Il secondo è un investimento clinico scientifico maggiore cercando di studiare i meccanismi di trasmissione e di mettere a punto terapie che siano a disposizione anche delle popolazioni più povere. Il terzo è un problema politico: queste malattie si diffondono dove saltano i sistemi sociali, educativi e sanitari. La diffusione di ebola è avvenuta in tre Paesi in cui la colonizzazione e le dinamiche politiche hanno fatto tabula rasa della struttura sociale e sanitaria. È impossibile evitare epidemie di questo genere se non si investe nell’ambiente, nell’istruzione, sulla sanità, sulle economie. I 50mila bambini soldato della Sierra Leone non solo hanno diffuso malattie, ma hanno determinato la perdita di conoscenze perché questi ragazzi non andavano a scuola.