«Strana è l’eco dei nomi!». E in questo libro di nomi ce ne sono tanti. Nomi diversi per una stessa persona, nomi uguali per persone differenti… Colei che riesce a far parlare Sara, la vecchia bamun che tutti credevano muta, è Bertha, una giovane donna camerunese residente negli Stati Uniti tornata nel suo Paese per una ricerca storica. Bertha: si chiama come la donna che accolse Sara come precettrice quando, a nove anni di età, nel 1931, fu donata dallo zio al sultano Ibrahim Njoya – «il padre di tutti Bamun» –, che di mogli ne aveva già 681. Bertha decise che fino alla pubertà la bambina doveva apparire come «un maschio perfetto», in sostituzione di suo figlio Nebu tragicamente scomparso, di cui Sara dovette assumere pure il nome.
Ma sarebbe impresa disperata racchiudere in poche righe un romanzo così denso e articolato, che dal lettore esige l’attenzione anche per i numerosi salti temporali. Limitiamoci ad alcune coordinate. Njoya è un personaggio storico di rilievo. Fu l’importante sovrano bamun che creò, in diverse varianti, una scrittura detta shümum, grazie alla quale raccolse anche le memorie del suo popolo (oggi neglette, lamenta l’autore), e che fu un autentico mecenate per legioni di artisti alla sua corte di Fumban. Pesava però su di lui il collaborazionismo a favore del colono – fatto, questo, che costituisce uno dei meccanismi di avanzamento del racconto –, il quale finì comunque per esiliarlo a Yaoundé, terra degli Ewondo, nella tenuta di Mont Plaisant offertagli dal paramount chief Charles Atangana, cui lo legava una strana amicizia. Sarà quest’ultimo, cosmopolita e spregiudicato, il “vincente” nei successivi assetti politici.
Il colonialismo, peraltro, in Camerun s’incarnò in protagonisti diversi: tedeschi fino alla Prima guerra mondiale (non a caso vediamo il padre di Sara errare per Berlino), quindi britannici e soprattutto francesi («I bianchi sono così tribalisti!»). «Perché dunque la Società delle nazioni non ci ha domandato di chi volevamo ancora essere colonia?», domanda il leader dei giovani che assistono con crescente interesse alla lunga conversazione tra Sara «la decana» e Bertha “l’americana”. Domanda paradossale e, a modo suo, sensata, visto il rigurgito della “questione anglofona” che sta scuotendo il Paese anche nel 2016-17.
Altra chiave che sostiene la complessa architettura del romanzo è il confronto tra storia scritta (l’autore stesso riferisce, in appendice, delle sue accurate ricerche archivistiche, che egli mette in bocca alla sua alter ego Bertha) e storia orale. Fino a che punto «fidarsi» delle informazioni della novantenne Sara, della sua «memoria capricciosa»? «”Il mio corpo è un archivio” ribatteva la decana. “Ricorda storie che io non conosco”». Certamente lo sfondo storico è preciso anche in molti dettagli, come la rabbia che induce Njoya a distruggere la macchina per stampare libri nella scrittura da lui creata. Ma certamente molte altre vicende narrate sono mera invenzione. Nganang sembra voler tentare una sua costruzione della storia che punti al senso e alle dinamiche dei fatti, “veri” al di là della loro verità fattuale. Quasi il tentativo di edificare un mito nazionale. Non per nulla le 400 pagine di quest’opera non rappresentano che la prima parte di una trilogia: se Mont Plaisant è incentrato sulla Grande guerra, momento decisivo nell’autocoscienza africana moderna, in francese è già uscito il secondo volume, La saison des prunes, ambientato durante la Seconda guerra mondiale – un’altra «guerra che non è la nostra» – e che vede tra i protagonisti l’eroe nazionalista Ruben Um Nyobe. Il terzo tomo, ancora inedito, è dedicato alla guerra civile camerunese, combattuta negli anni a cavallo dell’indipendenza.
Una lettura impegnativa, che gli amanti dell’Africa non da cartolina sapranno apprezzare e che soprattutto propone un punto di vista africano (non va sottaciuto che il libro ha provocato un acceso dibattito in seno alla comunità degli intellettuali camerunesi e che Nganang viene presentato, per esempio da Jeune Afrique, come un «uomo in rivolta»). Merita naturalmente di essere menzionata la traduttrice, Maurizia Balmelli (anche se talune scelte lessicali sono poco condivisibili). Dello stesso autore, in Italia era già arrivato Tempi da cane (Tirrenia Stampatori, 2008), Gran Premio letterario dell’Africa Nera nel 2002.
66thand2nd, 2017, pp. 411, € 20,00
(Pier Maria Mazzola)
Note a margine: Patrice Nganang è stato arrestato in Camerun, il suo Paese, il 6 dicembre scorso, per alcune forti prese di posizione contro il regime di Paul Biya, nel contesto della violenta repressione del movimento indipendentista del Camerun anglofono. Ai primi di gennaio è stato, a sorpresa, espulso verso gli Stati Uniti (ha passaporto anche americano).
Ne abbiamo dato notizia nella sezione NEWS del nostro sito:
09/12/2017: Camerun – Arrestato lo scrittore Patrice Nganang
11/12/2017: Camerun – Oggi è il giorno del giudizio per lo scrittore Patrice Nganang