Il 2017 è stato l’anno dell’uscita di scena di alcuni protagonisti della vita politica africana degli ultimi decenni: il gambiano Yahya Jammeh, l’angolano Eduardo Dos Santos e lo zimbabweano Robert Mugabe.
Ad aprire i balli è stato Jammeh. Alla fine del 2016 aveva organizzato elezioni presidenziali, sicuro che sarebbe stato rieletto come era avvenuto nei 22 anni precedenti. Contro ogni previsione è stato sconfitto da Adama Barrow, un oppositore che è riuscito a catalizzare il malcontento di una popolazione oppressa da un regime intollerante. «Yahya Jammeh aveva promesso di accettare qualsiasi risultato elettorale – spiega Ebrima Fall, una ricercatrice di origini gambiane che vive in Senegal -. Ma poi, di fronte alla sconfitta, ci ha ripensato. Ha accusato l’avversario di irregolarità e ha annunciato la sua permanenza al potere. Solo una forte mobilitazione della società civile è riuscita a scalzarlo e a imporre Barrow». Nella crisi politica hanno giocato un ruolo importantissimo sia l’Ecowas, la comunità economica dell’Africa occidentale, sia le Nazioni Unite che hanno mediato tra le parti e hanno «accompagnato Jammeh alla porta» favorendone l’esilio dorato in Guinea Equatoriale.
Anche Mugabe è stato costretto a lasciare. Il vecchio elefante, come lo chiamavano gli avversari, aveva aveva cercato di favorire la moglie Grace nella lotta alla sua successione. Tutti i suoi nemici erano stati esclusi, ne rimaneva uno: il potentissimo Emmerson Mnangagwa. Compagno di lotta di Mugabe, ministro e vicepresidente, ha sempre goduto dell’appoggio dei veterani della lotta di indipendenza e delle forze armate. Quando Mugabe lo ha escluso dal potere e lo ha costretto all’esilio, proprio i veterani e le forze armate si sono ribellate e hanno scalzato dal potere il vecchio politico (Mugabe ha 93 anni) che è stato costretto alle dimissioni il 21 novembre. Ora Mnangagwa guida il Paese in attesa delle elezioni che si terranno nel 2018 e dalle quali, probabilmente, uscirà ancora vincitore lo stesso Mnangagwa che gli avversari chiamano «coccodrillo», per la sua capacità di attendere il suo avversario e azzannarlo nel momento di difficoltà.
L’angolano Eduardo Dos Santos è l’unico a essersi ritirato spontaneamente dopo 38 anni al potere. Ormai anziano (ha 74 anni), malato da anni, Dos Santos voleva passare la mano da tempo. Per la successione aveva pensato a uno dei suoi figli, ma l’Mpla, il suo partito, si è opposto. Così Eduardo Dos Santos ha accettato di lasciare la presidenza nelle mani di João Lourenço, un suo ex sodale che vince le elezioni il 23 agosto 2017. Dos Santos ha ottenuto in cambio la completa immunità e la presidenza del partito. Sembrava una transizione tranquilla, senza scossoni. Ma Lourenço si è rivelato più indipendente di quanto sembrasse inizialmente. Fin dalle prime settimane ha preso decisioni scomode, come la rimozione di Isabel, la figlia di Dos Santos, dalla presidenza della Sonangol, la società petrolifera angolana, la vera cassaforte del Paese. Una decisione che ha sorpreso tanti osservatori e che annuncia un periodo di grandi cambiamenti.