Eya era una ragazza come le altre tredicenni tunisine: scuola, famiglia, Internet, musica. Poco altro. Il padre, per battere quella che riteneva un’offesa al suo onore, l’ha bruciata viva. Alla fine delle lezioni, come ogni giorno, Eya aveva ripreso la via di casa, facendosi accompagnare da un suo compagno di scuola. Durante il tragitto hanno solo parlato, senza andare oltre.
Il padre di Eya, dalla finestra di casa, li ha visti arrivare e, colto da un raptus, è sceso in strada avventandosi contro la figlia, aggredendola, cospargendola di benzina e dandole fuoco. La ragazzina è letteralmente bruciata viva, con ustioni che, in pochi giorni, l’hanno condotta alla morte, con il padre che, da una delle celle del terribile carcere di Mornaguia, continua a ripetere, ossessivamente, d’averlo fatto per onore.
Una vicenda che ha spaccato in due il cuore della Tunisia che, come accade sempre, si è divisa non sulla condanna dell’accaduto, ma sulle motivazioni. L’anima laica del Paese (quella che, per il 19 giugno, ha indetto una marcia silenziosa di protesta a Tunisi) ravvisa in quando accaduto l’ennesima conferma di come l’islam vada spesso fuori controllo, inducendo chi si ritiene un musulmano osservante a compiere atti aberranti, quali appunto uccidere un figlia adolescente per il solo fatto di passeggiare con un ragazzo, compagno di scuola o qualcosa di più, poco importa.
Ad accrescere la rabbia per l’accaduto c’è anche il fatto che il sacrificio di Eya non ha avuto come teatro una sperduta località degradata e povera del Paese, ma Citè Ibn Khaldoun, di fatto dentro la Grande Tunisi, zona dove però alcune interpretazioni restrittive del Corano, soprattutto in materia di diritti e libertà delle donne, trovano ampia considerazione.
Eya, suo malgrado, è divenuta il simbolo, drammatico, di come spesso, nella Tunisia culla araba e musulmana della tolleranza e del rispetto, la condizione femminile sia ostaggio di una cultura restia a morire nonostante i cinquant’anni e più dalla legge che sancisce la parità di genere.
L’iniziativa di ricordare Eya giovedì prossimo con una marcia a Tunisi – che partirà significativamente da piazza dei Diritti umani per concludersi davanti al ministero della Donna – è stata accolta da un consenso unanime, anche se qualcuno non ne accetta il carattere di protesta silenziosa. “Ma quale silenzio!”, Urlano alcuni ragazzi tunisini su forum e social network: “deve essere l’occasione per gridare la nostra collera e la nostra indignazione”.
Per qualcun altro invece l’asserito legame tra quanto accaduto ad Eya e la religione è l’ennesimo tentativo di mettere all’angolo l’islam in Tunisia. “La nostra religione – scrivono ragazzi della stessa età di quelli che essi contestano – non contempla l’uccisione col fuoco come forma di punizione. Smettiamola di accusare l’islam d’essere alla base di ogni cosa cattiva che accade”. In Tunisia la strada della pacificazione, dell’armonizzazione delle sue anime in un Paese di tolleranza e solidarietà è ancora tutta in salita. – Swissinfo