Perché lo sforzo di comunicazione di un’altra Africa profuso da tanti, e per molti anni, non ha saputo arginare «l’autentico linciaggio lessicale, mediatico, sociale e politico» di cui gli africani sono oggi bersaglio?
Con questa riflessione “programmatica” di Jean-Léonard Touadi s’inaugura il blog a più voci della nostra rivista: Nero su bianco. Faremo conoscenza un poco per volta con gli opinionisti, uomini e donne, che lo animeranno. Seguiteci.
Abbiamo avuto sempre l’Africa nel cuore – io e molti altri in Italia, come gli amici di questa rivista, e non solo – ma con il desiderio di raccontarla in maniera razionale. Cercando, cioè, di farla conoscere per quella che è per sé stessa, ossia lontano dalle rappresentazioni e dai falsi miti che strumentalmente l’Occidente ha elaborato su di essa. Un doppio lavoro di decodificazione delle rappresentazioni altrui e una ferma volontà di dare cittadinanza alla narrazione dell’Africa e degli africani su sé stessi. Un intenso e appassionante lavoro controcorrente rispetto ai falsi miti, talmente sedimentati da costituire il quadro inconscio di riferimenti di ogni discorso sul continente e i suoi abitanti.
Volevamo dare all’Italia un nutrimento culturale, un pranzo al sacco, sulla strada di una riscoperta e di un incontro possibile con il continente più vicino e nello stesso tempo più lontano da lei. Volevamo superare la barriera epistemologica della “terra incognita” intesa come una nebulosa non solo non conosciuta ma inconoscibile. Africa come luogo strano ed estraneo (hic sunt leones) dove accadono fatti ma soprattutto misfatti che la relegano ai margini della storia “normale”, quella razionale dei popoli civilizzati.
Volevamo costruire un ponte intrecciato con i bambù della conoscenza e del dialogo tentando e, spesso riuscendoci, l’irruzione della parola africana, dall’Africa con gli africani. Perché credevamo che dietro il pregiudizio radicato e duro a morire si cela una foresta dalle mille piste che aspetta di essere attraversata con rispetto, circospezione, meraviglia e capacità di ricevere i doni meravigliosi del suo “serbatoio” antropologico.
Volevamo, in fondo, cogliere l’Africa e gli africani nella complessità del loro essere e avere, prima di accoglierli in Italia sul terreno della costruzione di un Noi possibile nelle nostre città, nei luoghi di lavoro e di vita, nella ricerca di un modello equo di produzione e riproduzione della ricchezza materiale e simbolica.
Volevamo apparecchiare la tavola di un’auspicabile impollinazione di uno spazio afro-italiano che l’immigrazione ha reso e renderà possibile.
Ora che l’orizzonte sociale, culturale e politico dell’Italia sembra segnare la sconfitta apparente di quel nostro sogno, ci dobbiamo interrogare e capire, come dice Chinua Achebe, «dove ci ha colpito la pioggia», perché, se non capiamo dove la pioggia ci ha colpiti, non potremo nemmeno sapere dove ripararci.
Perché le cose non sono andate nella direzione che auspicavamo? La direzione, cioè, di una società che lentamente ma in maniera irreversibile avrebbe trovato la strada del dialogo e della convivenza nella diversità? Perché, nonostante i nostri articoli, reportage, campagne anche di successo, libri, siti web, programmi radiofonici, e per alcuni anche televisivi, cassette audiovisive anche di buona fattura e diffusione, assistiamo a questo pericoloso ripiegamento su di sé della nostra società, con il rigetto assordante di capire e di accogliere l’altro e il radicalmente altro che è il “negro africano”?
Perché abbiamo dovuto e potuto assistere a questo autentico linciaggio lessicale, mediatico, sociale e politico dell’Africa e degli africani? Dobbiamo scavare e trovare insieme le risposte a queste domande ineludibili. Perché il nostro lavoro, la nostra produzione intellettuale, come singoli e come comunità mentale e spirituale, non può e non deve continuare sui sentieri battuti e, a questo punto, sconfitti, nelle nostre certezze di essere nel giusto, nel buono e nel bello. E non si tratta solo di una nostra carenza comunicativa o/e pedagogica.
Perché questo razzismo istituzionale ha finito per vincere le elezioni con tali proporzioni dopo aver vinto la battaglia ideologica nei media (tivù, social network) e nella narrazione pubblica del quotidiano italiano? Un fenomeno magistralmente descritto da Ngũgĩ wa Thiong’o ha colpito l’Italia e l’ha trasformata. «Il razzismo istituzionale che permea molte delle strutture educative, sociali e politiche dell’Occidente ha finito con l’influenzare la coscienza generale della società. Le relazioni personali, i sentimenti, gli atteggiamenti, i valori, il modo di vedere, la percezione di sé e degli altri, persino le azioni di tutti i giorni, sono stati influenzati dal razzismo. I valori razzisti sono diventati la norma che si è innocentemente tramandata in famiglia e negli altri circoli sociali formativi. Infatti, il razzismo è stato parte dell’immaginazione e delle pratiche dell’Occidente per così tanto tempo, che alcuni vedono in esso la causa ultima di tutti i mali sociali. La storia del capitalismo, del capitale mercantile e industriale fino a quello finanziario dell’era imperialista, sostiene questa particolare interpretazione: il razzismo, difatti, è stato parte integrante della schiavitù, del colonialismo e del neocolonialismo» (Ngũgĩ wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo, Meltemi, 2000, pp. 171-172).
Dove ci ha colpito la pioggia? Se questo nuovo progetto – il sito di Africa rinnovato, con un nuovo spazio di “opinioni” a più voci – andrà nella direzione di cercare il luogo maledetto dove il nostro verbo non ha incontrato e sconfitto la narrazione degli altri, che sembra ora vincente, allora sarà pertinente e molto attuale. Una goccia d’acqua nel deserto culturale e morale che ha colpito la classe dirigente e intellettuale italiana di fronte all’irruzione dell’Africa in Italia attraverso la presenza fisica degli africani in carne ed ossa. E per avere successo dovrà fare spazio alle “voci africane”, soprattutto a quelle delle nuove generazioni rimaste in Africa o presenti nella capillare diaspora europea. In poche parole, il dialogo e la contaminazione afroitaliana che era nei nostri sogni deve prima di tutto realizzarsi nelle nostre redazioni, nei luoghi dell’elaborazione del discorso sull’Africa.
Siamo noi stessi ciò che vogliamo che la società sia. E, per farlo, intraprendiamo con coraggio e innovazione la strada che porta all’epifania dell’Africa in Italia. Dobbiamo costruire spazi aperti e luoghi contaminati dove nascerà il pensiero in grado di testimoniare, nella trama della vita, l’intercultura viva e feconda che desideriamo con tutto il nostro cuore e con tutta la nostra intelligenza.
L’Africa sta vivendo un momento particolare della sua vicenda storica. Un continente in piena trasformazione che sta velocemente decidendo di rivolgersi al mondo, rompendo di colpo il faccia a faccia esclusivo avuto con l’Occidente europeo da circa cinque secoli. Sta cercando di definire da sé e per sé il suo progetto politico, economico, le sue nuove identità culturali, le sue vocazioni relazionali, sfruttando tutti i possibili attraversamenti multipli offerti dalla globalizzazione. L’Europa non è più il suo unico interlocutore e il solco potrebbe crescere ancora mano a mano che cresce nelle opinioni pubbliche continentali la consapevolezza del rifiuto dell’Africa e degli africani in atto nel corpo politico e sociale delle società europee.
Tutti coloro che credono, invece, nella possibilità e necessità della creazione di uno spazio eurafricano devono lavorare per interrompere questa deriva dei continenti attraverso la capacità di immettere nel corpo culturale e sociali gli ingredienti di un racconto africano nuovo, fresco, scaturito dall’ascolto e dall’incontro con i luoghi e le persone che nelle Afriche e dalle Afriche irrompono in Europa attraverso l’immigrazione e la diaspora. In mezzo alle terre (mediterraneo) che hanno legato i destini dell’Africa e dell’Europa, dobbiamo creare delle isole felici di elaborazione comune di una convivialità possibile. Dobbiamo prendere atto che l’Europa non è più il centro del mondo; che la sua sovranità non s’impone più sugli altri. L’Europa deve accettare una comunità plurale dove le “sovranità” sono tutte ancillari e funzionali alla costruzione di una patria umana nella condivisione delle singolarità riconosciute e valorizzate. La presenza degli africani in Italia può rappresentare questa palestra difficile ma esaltante e promettente.
Jean-Léonard Touadi. Giornalista e scrittore, professore universitario, ha al suo attivo anche una carriera politica (è stato il primo deputato originario dell’Africa subsahariana e, nella precedente legislatura, Consigliere politico al Ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale). Suo ultimo libro pubblicato: Il Continente Verde, Bruno Mondadori, 2011.