«Il linguaggio è come un terreno di battaglia», afferma il grande Ngũgĩ wa Thiong’o. Alcuni titoli e autori per accostarsi al mondo letterario degli africani che – nero su bianco – «ricostruiscono, spiegano, interpretano il continente».
Nero su bianco. Penna nera, facce nere, storie nere. La letteratura (e la poesia) africana è un forziere aperto di cui (per fortuna) nessuno ha la chiave e che continua a buttare fuori preziose testimonianze. Oggi ancora più di ieri, semplicemente perché pare che il mondo si sia svegliato a un interesse chiaro e sincero per il continente africano. Ma soprattutto perché «non c’è agonia più grande che tenersi dentro una storia ancora non detta» – Maya Angelou.
A quelle esplosioni che sono state il conferimento del Nobel per la Letteratura a Wole Soyinka (1986) o la diffusione dell’opera di Chinua Achebe – il suo Le cose crollano (Things Fall Apart) è stato edito in 45 lingue, facendone l’autore africano più tradotto di tutti i tempi – sono seguite e si sono intrecciate pagine e pagine, pubblicazioni su pubblicazioni.
Sono aumentati i cataloghi, è cresciuto il numero dei lettori, i premi e gli eventi pubblici, e persino le critiche. Come quella, ad esempio, che molti autori sarebbero troppo occidentalizzati e che quindi finiscono per scrivere all’occidentale, diffondendo lo spirito pervasivo di quello spicchio di mondo che è già dominante. Critica rivolta soprattutto ad autori e autrici di successo della diaspora. Non citiamo i libri contestati per non proporre elementi di giudizio. La lettura finirebbe per esserne compromessa.
Più interessante sarebbe domandarsi che cos’è la letteratura africana e se è giusto un inquadramento. Un dibattito avviato molti anni fa, non a caso nel periodo delle indipendenze. Era il 1962, Università di Makerere a Kampala, Uganda: “Conferenza degli scrittori africani di espressione inglese”. Nasceva il confronto e nasceva anche il riscatto postcoloniale. C’era anche Ngũgĩ wa Thiong’o, che due anni dopo avrebbe inaugurato con Se ne andranno le nuvole devastatrici (Weep Not, Child) quella maniera di raccontare le Storie dei Paesi africani (in questo caso la rivolta dei Mau Mau in Kenya) che trasforma il romanzo in epica. Una grandezza espressiva che negli anni è andata consolidandosi e ha trovato scritture come quella di Chimamanda Ngozi Adichie – citiamo Metà di un sole giallo (Half of a Yellow Sun) che ci trasporta nei terribili anni della guerra civile in Nigeria e il tentativo di indipendenza del Biafra. O anche, vogliamo ricordare Lo sguardo del leone (Beneath the Lion’s Gaze) di Maaza Mengiste, che ripercorre i grandi traumi dell’Etiopia del XX secolo: la fame, il conflitto con l’Eritrea, la caduta dell’imperatore Haile Selassie, il regime sanguinario di Menghistu e, da lontano, il ricordo dell’aggressione dell’Italia di Mussolini.
Ed è sempre lui, Ngũgĩ wa Thiong’o, ad aver detto: «Il linguaggio è come un terreno di battaglia» (Language as a war zone). Lo scrittore, drammaturgo e saggista keniota fa riferimento alle lingue, quelle imposte dai colonizzatori e che, si voglia o no, costruiscono e determinano un certo modello di pensiero. Ma qui non parliamo del recupero delle lingue africane, bensì delle nuove narrative. Non importa se attraverso lingue europee, alla fin fine semplicemente – e più comodamente – usate per rappresentare l’Africa. Per parlarne, per raccontarla, per presentarla a un mondo che – nonostante le sacche di pregiudizio e di chiusura – ha voglia di ascoltare, di sapere, di imparare.
La parola è potere. Questo lo sa bene chi scrive. Lo sanno bene lo scrittore famoso e gli sconosciuti esordienti. Lo sanno bene anche le case editrici. Soprattutto quelle indipendenti, che spesso sono anche collettivi dove ci si scambia esperienze ed emozioni e che, in qualche modo, rappresentano la risposta di chi obietta che la letteratura africana ha bisogno di una spinta interna che la porti fuori e non viceversa. Citiamo, per portare qualche esempio, Femrite in Uganda; amaBooks in Zimbabwe; Jalada in Kenya; Parrésia in Nigeria.
Per quanto riguarda i Paesi francofoni, pare ancora forte la tendenza a pubblicare presso un editore francese, ma assai diffusi sono gli ateliers de lecture et d’écriture e fanno ormai scuola i famosi Les Ateliers de la pensée di Dakar condotti da Achille Mbembe e Felwine Sarr. Écrire l’Afrique-Monde (“Scrivere l’Africa-mondo”) è il testo collettivo venuto fuori dagli interventi e riflessioni della prima edizione di questo evento. A contribuirvi sono scrittori, filosofi, accademici, studiosi. Africani. Che ricostruiscono, spiegano, interpretano il continente. Perché la narrativa prima di essere parola è pensiero. Ed è questo pensiero autentico che il pubblico sembra cercare ogni giorno di più nelle produzioni letterarie africane. E quindi, forse, la risposta è: non importa definire la letteratura africana, quello che importa è leggere. Leggere il nero su bianco.
Antonella Sinopoli. Giornalista professionista e videomaker, è cofondatrice e direttrice responsabile di Voci Globali. Scrive di Africa anche su Ghanaway. Ha fondato il progetto AfroWomenPoetry con l’obiettivo di dare spazio e voce alle donne poete africane. Vive tra il Ghana e l’Italia.