Mario Giro ▸ La “piccola prosperità” della classe media africana

di Pier Maria Mazzola

Si parla molto di nuova classe media africana. Ma forse non ce n’è di un tipo solo. Vediamo un po’ più da vicino che cosa realmente significhi. E scopriremo come anche qui si affaccia l’individualismo…

– Si fa tanto parlare di nuova classe media nei Paesi in via di sviluppo. Dalla fine del secolo scorso, la redistribuzione della ricchezza tra continenti avrebbe favorito l’emergere di una nuova middle class con più potere di spesa, prima in Asia e America Latina e poi anche in Africa. Certo non siamo ancora a livello occidentale (dove tuttavia la classe media si sente in crisi), ma ci si avvicina. Qualcuno fa anche qualche stima: si tratterebbe di quasi un miliardo di persone, tra cui gli africani sarebbero 300 milioni circa.

Ma cos’è in realtà questa nuova classe? Gli economisti brasiliani la chiamano “classe C” su una scala da “A” a “E”: gente che – grazie ai programmi sociali e ai sussidi statali – si può permettere ora di comprare elettrodomestici e auto a rate. Si tratta di una classe appena uscita dai livelli di sussistenza (quelli secondo cui tutto il reddito o quasi va in cibo e altri bisogni primari) e che può spendere “fino a 10 $ USA al giorno” secondo gli esperti. Qualcuno calcola fino a 20$.

E in Africa? Innanzitutto si pone la questione demografica: si tratta del continente più giovane, con circa il 65% della popolazione sotto i 30 anni. Quindi la nuova middle income è composta da giovani, in genere che hanno studiato in scuole migliori dei loro padri e che si sono culturalmente globalizzati (vedi l’utilizzo dello smartphone e di internet). Si tratta di imprenditori, commercianti o professionisti: è finita l’epoca in cui viveva bene solo chi lavorava per il settore pubblico. Ma, guardandola dal basso, questa nuova classe, che incontriamo sempre più spesso negli alberghi, aeroporti o nei luoghi turistici, percepisce sé stessa non come media ma come alta: les bas d’en haut, come si dice in Africa francofona. Sono coloro che ce l’hanno fatta e mirano a far parte dell’élite. Che cosa accade ai molto più numerosi hauts d’en bas?

Costoro si battono per la petite prospérité, la piccola prosperità che sperano raggiungere, eco ironico al termine “prosperità” propagandato dalle Chiese neo-cristiane. Stimata guadagnare tra i 50.000 e i 500.000 franchi Cfa al mese (ossia tra i 76 e i 760 euro), la “classe C” africana identifica “piccola prosperità” una situazione da oltre i 200.000 al mese (304 euro). Al di sotto ci si deve battere a morte per non crollare, per non fallire. Infatti, inferiori ai 50.000 Cfa si è considerati senza speranza, bas d’en bas, buoni solo per tornare al villaggio a coltivare la terra dei parenti.

Piccola prosperità significa mettere in campo varie strategie, cumulando lavori e attività: per esempio un insegnante che possiede anche una buvette o un piccolo allevamento di polli; un autista di camion o taxi che coltiva un campo affittato; un’impiegata che aggiunge un’attività di commercio di prodotti artigianali; un operaio che gestisce anche un call-box internet e così via.

Rispetto al lavoro formale ufficiale (che dà lo status sociale), le attività secondarie sono in genere più remunerative ma del tutto informali, partecipando appunto al settore informale che rappresenta gran parte dell’economia africana (l’80%).

Ma bisogna stare attenti ai parenti: appena si accorgono che sta un po’ meglio, il debuttante della piccola prosperità si vedrà affidare immediatamente uno dei pargoli di un lontano cugino perché lo faccia studiare… Questo può mutare il fragile bilancio familiare ma anche favorirlo, se il nuovo arrivato si impegnerà nell’attività secondaria. Quindi “ci si batte” e tutta la vita ruota attorno alle varie attività che permettono di mantenere la piccola prosperità acquisita e, se possibile, aumentarla. Se si hanno molti figli, una delle spese maggiori da sostenere è la loro scolarizzazione, soprattutto ora che in Africa l’insegnamento di qualità (in specie secondario superiore) è stato quasi totalmente privatizzato.

Tutto ciò provoca anche un mutamento antropologico: si fa da sé – una novità in una società una volta comunitaria –, si fanno meno figli, si sta più attenti ai soldi, si aiuta di meno la famiglia allargata o il clan. Non che nel passato fosse tutto rose e fiori: la cosiddetta famiglia allargata africana non sfuggiva alla povertà endemica e opprimeva i giovani. Gli unici ad averne beneficio erano “gli anziani maschi” del gruppo che avevano diritto a tutto, anche al primo boccone… Oggi i giovani – soprattutto in ambito urbano – sono più indipendenti e quindi liberi di costruirsi la propria vita.

Ma gli effetti negativi di questa forma di “individualismo” si iniziano a vedere anche in Africa: anziani abbandonati, uomini e donne senza fissa dimora e soprattutto bambini e ragazzi di strada.

Foto Corbis


Mario Giro è docente di relazioni internazionali. Già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. Esperto in mediazioni e facilitazioni nei conflitti armati, cooperazione internazionale e sviluppo, Africa, Medio Oriente e America Latina. Autore di vari saggi e collaboratore di numerose riviste, ha recentemente pubblicato per Mondadori La globalizzazione difficile.

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