I discepoli del culto Bwiti si sottopongono a un rito d’iniziazione nel cuore della foresta assumendo una radice dagli effetti allucinogeni che permette di viaggiare nell’aldilà e tornare a vivere con saggezza.
L’Albero della Conoscenza, almeno stando ai pigmei, non cresce in paradiso bensì sulla terra. Si presenta in modo alquanto deludente, un arbusto perenne alto un paio di metri, dal tronco esile, che dà fiori bianchi e rosa e un frutto che ha l’aspetto di un mandarino deformato.
Per la scienza il suo nome è Tabernanthe iboga, per i pigmei semplicemente iboga, o “pianta-dei-morti”, o per l’appunto Albero della Conoscenza, nomi che gli derivano dalle potenti proprietà psicotrope dell’ibogaina, l’alcaloide concentrato nella scorza delle radici. Il quale, come ha sintetizzato uno sciamano che ho incontrato alla periferia di Libreville, in Gabon, se preso in forti dosi aumenta le capacità di percezione e acuisce i sensi fino a metterti in contatto con le anime dei defunti (di qui l’epiteto “pianta-dei-morti”) che «ti mostreranno tutte le ombre del tuo passato e schiuderanno innanzi a te i misteri del tuo futuro».
Una nuova vita
Endemica delle foreste dell’Africa centrale, l’iboga è usata da tempo immemorabile per i riti di passaggio delle comunità pigmee (si ipotizza che queste ne abbiano scoperto le proprietà osservando i mandrilli, che mangiano le radici per trarne effetti inebrianti). Dai pigmei, l’uso rituale dell’iboga si è esteso alle tribù del Gabon, in particolare i Fang, che nella prima metà del secolo scorso lo hanno profondamente sincretizzato col cristianesimo dando vita al culto Bwiti, i cui adepti, grazie all’iboga, vengono infusi della Conoscenza e apprendono il mistero delle origini dell’uomo in una brutale cerimonia d’affiliazione: lo sciamano o sacerdote bwitista somministra all’iniziando dosi massicce della radice portandolo vicino alla morte – rituale quanto fisica – e di qui, attraverso un big bang o Genesi fatti di stati allucinatori, alla successiva rinascita a una nuova vita di saggezza (l’unica che secondo il pensiero bwiti valga la pena di essere vissuta).
“Veri cristiani”
Secondo la mitologia del Bwiti, che a tratti sembra una riscrittura creativa dell’Antico Testamento, l’iboga fu un dono fatto da Dio alla razza nera ai primordi dell’umanità: all’epoca gli esseri umani conducevano una vita peccaminosa al punto che nessuno arrivava in paradiso, sicché per riempire i posti vacanti l’Onnipotente mandò l’iboga affinché l’uomo ritrovasse la retta via. I seguaci del Bwiti (oggi praticato anche in Guinea Equatoriale, Repubblica Democratica del Congo, Camerun e Congo) in epoca coloniale furono duramente repressi dai missionari francesi che li pensavano dediti a un culto diabolico, e ancora oggi sono scherniti negli ambienti cattolici. Dal canto loro, i bwitisti si considerano i veri cristiani, e accusano il Cattolicesimo occidentale di essersi corrotto e aver perso di vista i suoi valori fondamentali.
Limite invalicabile
Disse Isidore Ndjoung, sommo sacerdote del Bwiti e magistrato della corte suprema di Libreville: «La Chiesa cattolica propone una bella teoria per la domenica, l’iboga è una pratica per la vita di tutti i giorni. Nella Chiesa, di Dio si parla soltanto: con l’iboga lo si vive». È stato scritto da molti che l’assunzione dell’iboga provoca delle visioni che equivalgono a un intero ciclo di psicanalisi concentrato in poche ore: l’ibogaina porta a uno stato di elevatissima autoconsapevolezza, e spalanca le porte del subconscio, dietro le quali ciascuno di noi, anno dopo anno, chiude a doppia mandata ciò che non osa confessare a sé stesso. Avventurarsi oltre quelle porte troppo rapidamente può essere pericoloso: dipende da ciò che nascondono. Deve essere questo il senso dell’avvertimento che mi sono sentito rivolgere dal sacerdote di Libreville: «L’iboga va avvicinata con rispetto, altrimenti rischi la pazzia».
(testo e foto di Sergio Ramazzotti/Parallelozero)