Il discorso del governo, in continuità con quello preelettorale e con toni ancor più accesi, ha sdoganato l’irrilevanza dei diritti umani fondamentali (altrui) agli occhi di un gran numero di italiani. Mentre, di là dal Mediterraneo, i leader politici si distinguono per il loro silenzio gelido e senza eccezioni.
Il presidente del Consiglio Matteo Salvini da quando ha preso il potere ripete che vuole «stroncare la mafia dell’immigrazione clandestina che arricchisce pochi delinquenti e danneggia gli italiani». Finalmente. Solo che la sua raffinata strategia consiste nel prendersela con le tante vittime, non con i pochi delinquenti. Nel tenere alla larga i buoni samaritani.
In un giorno è andato e tornato da Tripoli trionfante con un pugno di mosche. Voleva gli hotspot «nel sud della Libia» ma ha dovuto fare un’acrobazia grammaticale e rettificare: «A sud della Libia». (Auguri: ha già dimenticato il rifiuto del Niger di ricevere soldati italiani per «rafforzare le frontiere»?). In compenso ha capito tutto in un giorno e smontato «la retorica in base alla quale in Libia si torturano le persone» (certo ci auguriamo che non si praticherà la tortura nel centro dell’Unhcr, non ancora operativo, l’unico che ha visitato).
Il medesimo superministro aveva giurato di «osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le [sue] funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione» – ma come amerebbe escludere dalla Nazione i Rom! – che, almeno «quelli italiani, purtroppo vanno tenuti». Ed evitiamo di domandarci se interesse del Paese è prendere a pesci in faccia gli altri Paesi (non meravigliamoci quando rendono pan per focaccia).
Questa volta non ci sembra necessario che scadano i fatidici primi cento giorni per capire l’orientamento di un nuovo governo. Perché, a prescindere dalle effettive politiche che saranno decretate, un dato è già certo e, temiamo, irreversibile, anche se dovesse cambiare l’assetto politico: la sconcertante accelerazione che il discorso pentaleghista ha impresso – prima in campagna elettorale e poi, dal 1° giugno, in piena “legittimità”, attraverso le dichiarazioni di chi ci ricorda che «ora lo Stato siamo noi» – all’incattivimento della gens italica. Che è constatabile non solo sui social ma anche negli incontri con le persone, nelle conversazioni per strada, all’interno delle famiglie… E a nessuno sembra più importare che la “percezione” non corrisponda affatto ai dati (sbarchi diminuiti, criminalità in calo…). La verità dei fatti appare come una variabile irrilevante, e non solo in questo campo.
Come ha detto l’antropologo Marco Aime parlandoci del suo recente libro su Lampedusa (L’isola del non ritorno, Bollati Boringhieri), «quel che più spaventa è il crescente consenso che il discorso di Salvini riscuote presso gli “italiani brava gente”. Almeno, prima, essere buoni era un valore. Ora no. Meglio cattivi». E del nuovo clima si accorgono, per primi, gli africani residenti in Italia da una vita, per i quali la pelle è tornata a essere un rischio.
Ma una rivista come Africa non può non rilevare anche un altro fatto. Il silenzio totale dei governi africani. I 629 uomini e donne sulla Aquarius, per esempio, vagante tra Malta e Valencia, venivano da: Sudan e Nigeria (assieme, quasi metà del carico), poi Eritrea, Sud Sudan, Algeria, Ghana, Guinea, Sierra Leone, Senegal, Gambia, Marocco, Mali, Costa d’Avorio, Togo, Camerun, Somalia, Etiopia, Guinea-Bissau, Ciad, Comore, Niger, Rd Congo, Liberia. Ebbene, chi ha alzato la voce per loro? Nessuno.
Non è, questa, solo una nostra “percezione”. È un fatto denunciato dagli stessi osservatori africani. Come Angélique Kidjo, la cantante beninese engagée: «È una vergogna per noi africani vedere i nostri giovani in mare e avere il silenzio stampa dei capi di Stato africani. È assolutamente necessario che si levi la loro voce». E Ali Bensaad, analista di lungo corso delle migrazioni maghrebino-saheliane: «Questo silenzio illustra il disprezzo dei dirigenti per le loro popolazioni. Del resto, queste migrazioni sono anzitutto la manifestazione dell’incuria di questi stessi dirigenti che non riescono a trattenere i loro giovani». Non con la forza, evidentemente, ma dando loro delle ragioni di credere nel proprio Paese.
Pier Maria Mazzola è il direttore responsabile di Africa. È stato direttore di Nigrizia e direttore editoriale di Emi (Editrice Missionaria Italiana). È autore di libri, tra cui Sulle strade dell’utopia (Emi) e Leoni d’Africa (Epoché), e curato Korogocho di Alex Zanotelli (Feltrinelli) e Io sono un nuba di Renato Kizito Sesana (Sperling & Kupfer).