In quanti modi non è stata declinata, nelle lettere sudafricane, la vicenda dell’apartheid? Non solo, mentre la segregazione era in atto, da autori e autrici dissidenti – soprattutto bianchi nella narrativa e neri nella poesia – ma anche dopo il 1994. L’apartheid è stata una ferita troppo profonda, e durata troppo a lungo, per non necessitare di una complessa elaborazione, anche da parte delle generazioni che ormai non hanno vissuto di persona il sistema politico della discriminazione. Non avrebbe potuto non essere un’onda lunga. Nemmeno una Commissione per la Verità e la Riconciliazione poteva bastare.
«La Commissione ci ha messo un cerotto sopra, ma senza guarirla – dice l’autrice di questo bel romanzo –. E la ferita con l’andar del tempo si è infettata. La Commissione non è penetrata nella società. Da parte mia, osservo il razzismo domestico, non quello di Stato». Yewande Omotoso in effetti non si addentra in analisi politiche o storiche. Si “limita” a raccontare una storia, ambientata in un microcosmo non casuale, con due coprotagoniste che rimangono fedeli al proprio carattere fino alla fine, anche se con un germoglio di cambiamento sorprendente. Tanto più se si considera che le due sono ultraottantenni e l’una è bianca (Marion) e l’altra nera (Hortensia).
Il microcosmo è quello di un quartiere residenziale di Città del Capo, una quarantina di abitazioni, popolato da soli bianchi. Finché, un giorno del 1994, non vi trasloca Hortensia: una donna benestante, senza figli, venuta dalla Nigeria col marito inglese. La nuova arrivata non risparmierà le sue frecciate a Marion e alla comunità “pallida” che la circonda, la quale si guarda bene dallo spalancarle le porte («Per Marion i neri erano dappertutto, anche troppi»), se non quelle di un «comitato» che è una sorta di assembla di condominio. Ma se la franchezza di Hortensia sorprende e fa riflettere il lettore, non la rende automaticamente un’eroina. Perché questa donna ostenta una simile corazza? Un incidente che coinvolge entrambe le loro case confinanti obbligherà le due donne a una pur faticosa condivisione di vita. «Il muro è ciò che li separa ma anche quel che permette loro di comunicare» è l’azzeccata frase di Simone Weil che l’autrice pone a esergo del suo romanzo (il primo che esce in italiano, ma non è il suo esordio letterario). Insomma una riflessione sul razzismo (e non solo: per esempio anche sulla condizione femminile) intessuta sul filo di vicende private che sono il precipitato di una storia assai più vasta.
Una parola sull’autrice, che è anche poetessa. Nata alle Barbados, portata in tenera età in Nigeria (il padre è yoruba), ha seguito la famiglia a Città del Capo nel 1992, quando aveva 12 anni – un’età sufficiente per essere consapevole del cambio di ambiente. È diventata architetto e risiede oggi a Johannesburg. Dunque un’identità itinerante (è anche tornata in Nigeria per approfondire la lingua paterna), che non le crea imbarazzo ma che l’ha, anzi, probabilmente aiutata ad assumere quello sguardo personale sulla società sudafricana che esprime nella sua scrittura.
66thand2nd, 2018, pp. 251, € 16,00
(Pier Maria Mazzola)