Si fa presto a dire Africa, ma ridurre il racconto di un continente a singoli episodi, singoli Stati, non esaurisce la complessità della vita di oltre un miliardo di persone. Servono sintesi e profondità, vedere dall’alto e scavare, semplificare e differenziare.
Prima notizia, due donne uccise con i figli in spalla in una radura del Camerun settentrionale dall’esercito camerunese: “Sostenevano Boko Haram”. Non è possibile confermare la veridicità dell’accaduto, anche se in rete circola un video, tra accuse di Amnesty International e smentite del governo di Yaoundé.
Resta il fatto che la fascia di confine tra Camerun e Nigeria, tanto a Nord, per la presenza di Boko Haram, come a ovest, con i ribelli separatisti anglofoni, sta diventando l’epicentro di violenze molto preoccupanti.
L’esercito camerunese e il portavoce del governo Issa Tchiroma Bakary hanno negato che si trattasse di propri soldati: «Le uniformi da combattimento utilizzate dall’esercito camerunese in tali circostanze sono uniformi da combattimento standard, ovvero caschi pesanti, giubbotti antiproiettile e stivali da ranger, il che ovviamente non si verifica nel video», ha affermato Bakary. Inoltre, «le armi mostrate dai presunti soldati presentati nel video non sono quelle usate dall’esercito camerunese in questa zona operativa».
Anche il portavoce militare Didier Badjeck ha sconfessato il video: «Il Camerun è firmatario di trattati e convenzioni internazionali e sa cosa vuol dire rispettare la dignità umana anche in guerra».
Amnesty International, tuttavia, ha affermato di avere «raccolto prove credibili per dimostrare che si tratta di soldati camerunesi»… «L’analisi di armi, dialoghi e divise, insieme alle testimonianze raccolte, suggeriscono fortemente che gli autori delle esecuzioni siano soldati del Camerun». La negazione del governo «semplicemente non regge al controllo». Il presidente Paul Biya ha ordinato un’indagine. Potremmo dire: capitolo primo, violenze in Africa.
Clement è un ragazzino di 15 anni, studente modello, vive nel quartiere popolare di Kariobangi a Nairobi, sua madre Milly lavora come sarta, suo papà Emmanuel è malato. Durante l’intervallo è caduto e si è rotto un braccio, niente di grave, capita, ma per lui la questione non è così semplice: andare al pronto soccorso, fare la lastra, ingessare il braccio costa 40 euro. In Italia sarebbe un ticket, per Milly è un mese di lavoro (il reddito annuo pro capite in Kenya è di 1507).
Così, vedendolo con il suo braccio rotto penso a quella frase, tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti, perché alla fine c’è un solo diritto, tutti gli altri sono conseguenze: è il diritto alla vita, ed è propriamente quello che manca. C’è il diritto alla nascita, poi, per vivere, se débrouiller, te la devi sbrigare. Secondo capitolo: diritti in Africa.
La popolazione indigena masai della Tanzania è sempre più esposta a processi di intimidazione, espulsione, arresto e violenza da parte del governo e delle compagnie di safari, secondo il nuovo rapporto Losing the Serengeti dell’Oakland Institute: «Le compagnie straniere di safari vorrebbero il Serengeti National Park per sé».
Le tensioni ai margini del Serengeti stanno aumentando: «Nel nome della protezione ambientale, centinaia di case sono già andate in fiamme e migliaia di persone sono state espulse dalla terra dei loro antenati». In realtà, secondo i ricercatori, vengono prese misure per avvantaggiare le compagnie di safari e consentire ai turisti ricchi di vedere o cacciare la fauna africana.
Il problema in Tanzania ha le sue radici negli anni Cinquanta, quando una serie di leggi sulla protezione ambientale espellevano i Masai dal loro habitat tradizionale. Da allora, leggi aggiuntive hanno ulteriormente limitato i loro diritti di pascolo, afferma il rapporto, provocando la fame.
I Masai sono stati, negli anni, sempre più spinti ai margini, in spazi ristretti, per assenza di una rappresentanza politica dei loro interessi. Il rapporto offre diversi rimedi legali e politici per tenere conto dei diritti dei Masai, come il diritto consuetudinario di occupazione e altri modelli per dare titolarità legale alle terre in modo da proteggere le comunità locali. Lo spazio per i diritti è sempre possibile quando il profitto di pochi non diventa tutto. Terzo capitolo: investimenti in Africa.
Si potrebbe andare avanti a lungo, per brevità arriviamo all’ultimo capitolo: «l’Africa non esiste» (Kapuściński). L’Africa non è un «soggetto teorico sovrano» (Hegel) rispetto al quale «tutte le altre storie diventano, in modo particolare, variazioni di una narrazione principale» (Chakrabarty). È un continente troppo grande per poterlo descrivere; un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa.
Fabrizio Floris, una laurea in Economia e un dottorato di ricerca in Sociologia dei fenomeni territoriali e internazionali, è membro della cooperativa “Labins, laboratorio di innovazione sociale”. Ha insegnato Antropologia economica presso l’Università di Torino e ha svolto altri insegnamenti. Suo principale campo d’interesse sono gli insediamenti informali, in Italia come in Africa. Scrive per Il manifesto, Nigrizia e altre testate. Tra i suoi libri: Periferie esistenziali (Robin, 2018), Eccessi di città. Baraccopoli, campi profughi e periferie psichedeliche (Paoline, 2007), Baracche e burattini? La città-slum di Korogocho in Kenya (L’Harmattan Italia, 2003).