Un piccolo Paese dell’Africa orientale ospita quasi un milione e mezzo di rifugiati sud-sudanesi (e non solo) scampati a violenze terrificanti. Un modello di accoglienza e integrazione.
«Io sono di Aleppo e in Siria aiutavo i civili in fuga dalla guerra. Poi con l’Unhcr sono venuto qui in Uganda per occuparmi della crisi umanitaria che è in atto. Credevo di aver ascoltato e visto tutto nel mio Paese, ma qua mi sembra di essere sprofondato nel girone più basso dell’inferno in terra». A parlare è Aladin Al Jaber. Ha 29 anni ed è supervisore nel centro di transito di Imvepi, nel Nord dell’Uganda, dove vengono registrati i profughi dal Sud Sudan.
Al Jaber, fierezza levantina e pragmatismo di chi per costrizione ha dovuto familiarizzare con l’orrore, non concede spazio alla commozione, non usa giri di parole, non elargisce silenzi alla riflessione, parla puntando immagini e racconti direttamente alla gola. «Queste persone che arrivano dal Sud Sudan sono come un esercito di fantasmi, hanno visto le peggiori barbarie, hanno perso tutto, in molti casi anche la propria identità. Non avevo mai visto nulla di simile prima, ma se si ascoltano le storie di questa gente e si prova a dialogare con loro capirete cosa sto dicendo».
Il baule di Alex
Aladin Al Jaber si congeda e ci invita ad addentrarci nella tendopoli di Imvepi – qui viene data la prima accoglienza agli sfollati – che si estende a vista d’occhio tutt’intorno. Sotto un tendone vive Alex con i suoi due figli, ha 47 anni, è sud-sudanese. È arrivato da una settimana nella terra dei Grandi Laghi fuggendo attraverso la boscaglia e portando con sé soltanto una bicicletta e un baule. Dentro quel baule ci sono dei vestiti, un paio di ciabatte, un libro. E una vestaglia da donna.
Alex la sfiora e poi confida: «È la sola cosa che sono riuscito a salvare di mia moglie. È stata fatta prigioniera dai soldati dinka quando era nei campi a lavorare. Non so che fine abbia fatto, non ho più neanche una sua foto perché la nostra casa è stata data alle fiamme e questi sono gli unici effetti che sono riuscito a salvare. Non so più nulla di lei, se è viva, se è morta o se è una schiava sessuale dei soldati… Può un uomo vivere con una pena così nel cuore? Può un uomo continuamente mentire a suoi figli quando gli chiedono dov’è la loro madre? Sono venuto in Uganda per loro, solo per i miei figli, perché possano godere di un domani e non subire la stessa sorte che è toccata ai loro genitori».
Infanzia spezzata
Il dolore nella tendopoli è ovunque e mette i brividi anche perché è un dolore muto, custodito nella dignità marmorea degli ultimi: non ci sono pianti, neppure i neonati strillano, e i feriti con i moncherini avvolti in garze sanguinanti e aggrappati a stampelle di un secolo passato attendono in silenzio il momento in cui li trasferiranno dalla sistemazione provvisoria di Imvepi a quella permanente nel campo profughi di Omugo. In fila, senza scomporsi ricevono le coperte, le taniche d’acqua e i teli distribuiti dalle organizzazioni umanitarie, poi vengono caricati sui camion in partenza per il campo dove verrà loro assegnato il lotto su cui costruire il proprio alloggio.
«Non mi manca niente del Sud Sudan», racconta lapidaria Maneno Baka, 14 anni, un foulard a riparare la testa dalla calura e una maglietta consunta, a volte sollevata sopra la bocca per proteggersi dalla polvere. È seduta sul furgone che la sta portando nella tendopoli. Parla poco, Maneno; la madre impiccata davanti agli occhi durante la lunga marcia verso l’Uganda da un gruppo di miliziani, e una fuga disperata, scalza, per giorni interi, con la nipotina più piccola stretta sulla schiena: tragedie che annientano l’identità e l’avvenire di chiunque. A 14 anni tutto dovrebbe iniziare: la vita, l’amore, i sogni, infiniti, eterni, tangibili. Per Maneno, invece, a 14 anni tutto è finito. Si muore ancor prima di cominciare a vivere, in Sud Sudan, e la sola salvezza è al di là della frontiera, in Uganda: terra che per chi scappa è oggi l’approdo dove ribaltare il destino di condanna e costruire il sepolcro in cui seppellire passato e ricordi. O almeno provarci.
Integrazione possibile
L’Uganda, infatti, in poco più di due anni ha già accolto oltre 1 milione e 400.000 rifugiati, per la maggior parte provenienti dal Sud Sudan, anche dalla Repubblica democratica del Congo, dal Burundi e dalla Somalia. Una nazione di circa 40 milioni di abitanti, 163° Paese (su 187) nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, ha dato ospitalità a più rifugiati di quanto non abbia fatto qualsiasi nazione europea. Oltre ad essere già questo un dato che stupisce, l’unicità del modello d’accoglienza ugandese è nel suo iter, che mira non solo ad accogliere ma anche a integrare nel tessuto sociale ugandese i rifugiati.
Il percorso del processo d’accoglienza del governo di Kampala è il seguente: una volta entrati in Uganda, i rifugiati vengono registrati e viene loro dato un primo soccorso; poi vengono ricollocati, dopo circa una settimana, nelle tendopoli. Oggi nel Paese si contano 30 campi profughi e ad ogni famiglia vengono dati – oltre a 12 chili di cibo al mese per persona e supporto sanitario gratuito – anche un lotto di terra di 900 metri quadrati dove costruire il proprio alloggio e coltivare. Il progetto di Kampala, sulla carta, è infatti quello di accompagnare i rifugiati verso la completa autosufficienza e la piena integrazione nella società ugandese. Per questo viene inoltre consentita la libertà di circolazione su tutto il territorio nazionale. A rafforzare questa politica di integrazione e interazione c’è anche la legge voluta dal governo, che prevede che il 30 per cento degli aiuti internazionali sia destinato ai territori ospitanti. Una scelta strategica che ha permesso di costruire, nelle zone dove sono presenti gli insediamenti dei rifugiati, nuove infrastrutture di cui beneficiano anche i cittadini ugandesi.
Più luci che ombre
C’è anche il rovescio della medaglia, ovvero che la vita dei rifugiati nei campi è comunque costellata di difficoltà, che a volte i terreni assegnati sono aridi e quindi intere famiglie devono dipendere dagli aiuti umanitari. Sono inoltre emersi casi di corruzione, come dimostra l’indagine nei confronti di alcuni membri del governo accusati di avere gonfiato il numero dei rifugiati per ottenere maggiori fondi dai donatori. Mentre il presidente Yoweri Museveni, in carica da oltre trent’anni, accogliendo oltre un milione di rifugiati è riuscito a ottenere consensi interni e supporto politico internazionale, distogliendo così l’attenzione dalle accuse di autoritarismo e di metodi antidemocratici del suo operato.
Evidenziate, quindi, anche le macchie del processo d’accoglienza ugandese, e sottolineato che una tendopoli, per quanto ben organizzata, è comunque improprio definirla un paradiso, tutto ciò non mina però un’altra evidenza lapalissiana: che i campi profughi ugandesi sono in ogni caso la salvezza tangibile da un inferno contemporaneo. Ne sono la riprova le parole di Emma, che ha 27 anni ed è arrivata nel Rhino Camp nel 2016 con i suoi due figli. Da mesi non ha più notizie di suo marito rimasto in Sud Sudan e nemmeno dei suoi genitori, e mentre ripara il tetto del tukul racconta: «Al di là delle sfide che ogni giorno dobbiamo affrontare, noi che siamo qua in Uganda siamo vivi. In Sud Sudan la vita non è più né un diritto né una certezza. Qua, invece, sì. E solo se si è vivi si può provare ad avere una nuova esistenza».
(Daniele Bellocchio – foto di Marco Gualazzini)