Di Adji Dieye vi avevamo parlato qualche mese fa, sottolineando la sua caratura di artista biculturale, una seconda generazione (il termine non ci piace ma non abbiamo ancora trovato un sostituto più appropriato) capace di far dialogare maschile e femminile, Italia e Senegal, vecchio e nuovo mondo. Da domani Maggic Cube, uno dei suoi progetti più riusciti, sarà esposto a Milano, alla Casa del Pane di piazza Oberdan, per tutta la durata del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina. Niccolò Moscatelli, curatore che lavora spesso con Adji, per introdurre Maggic Cube cita Thomas Sankara. Era il 4 aprile 1986, e il presidente burkinabè, intervenendo alla Conferenza Nazionale del Comitato per la difesa della Rivoluzione, spiegava così l’imperialismo: «È naturale che la persona che ti fornisce il cibo ti detti anche la sua volontà. Guarda il tuo piatto, quando mangi riso, mais o miglio importati».
La nostra giovane artista sembra prendere spunto da quelle parole e, all’elenco dei “prodotti imperialisti”, processati e importati, aggiunge il dado da cucina: ingrediente apparentemente banale, ma che ha stravolto le abitudini culinarie dell’Africa occidentale, al punto di essere percepito oggi come un elemento autoctono e indispensabile.
Dakar (ma la stessa cosa accade ad Abidjan o Bamako) pullula di scritte e immagini relative ai dadi. «Autostrade, stradine, mercati, negozi d’angolo, ristoranti… tutti sono marchiati con i loro loghi», prosegue Moscatelli nel suo testo. «I dadi e le loro pubblicità entrano violentemente, ma quasi in silenzio, nella vita quotidiana di una nazione. L’intera città diventa così un grande spazio pubblicitario da cui nessuno può fuggire».
Attraverso le sue foto Adji mette in scea la pervasività del magico cubo che risolverebbe tanti problemi in cucina e di cui sembra impossibile ormai fare a meno. Punta l’obiettivo su dettagli, sempre diversi, che ci raccontano la lunga storia del prodotto e i suoi effetti sul consumatore. Nella costruzione dei ritratti si ispira chiaramente alla tradizione della fotografia in studio di maestri come Seydou Keïta, Mama Casset e Oumar Ly. Ma la sua rielaborazione è ironica e pop.
Elemento unificante è lo sfondo, che ripropone insistentemente il logo del brand fittizio “Maggic”, gioco di parole tra l’esistente marchio Maggi e la magie e una scelta di colori non casuale: il rosso e il giallo, protagonisti di tante confezioni di dadi e caratterizzanti anche le principali catene di fast food, che hanno velocizzato e standardizzato il modo di nutrirsi in tutto il pianeta. Adji non prende posizione contro la mixité, il suo bersaglio è l’omologazione irriflessa e inconsapevole di cui la Maggic Box diviene il simbolo.
A curare l’esposizione milanese, Maria Pia Bernardoni, che lavora per Lagos Photo Festival.