«Non mi sento molto tranquillo». Commenta così ad Avvenire padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano residente da anni a Bozoum, nel Nord-ovest della Repubblica Centrafricana. Alcuni militari lo hanno fermato per ore, sabato scorso, per aver fotografato il sito di una miniera sfruttata da una compagnia cinese. Poi lo hanno rilasciato, ma l’arresto ha scatenato la rabbia della gente locale e, negli scontri che sono seguiti con l’esercito, solo per caso non si sono registrati morti e feriti.
Ma chi è padre Aurelio? È un missionario carmelitano di origini cuneesi. È arrivato in Centrafrica nel 1992. Qui ha trovato un Paese poverissimo, caratterizzato da continui golpe e da una forte instabilità politica. Instabilità accentuata dopo l’ultimo colpo di Stato,nel 2013. Da allora non c’è più pace.
«La pace è ancora molto lontana – ha detto padre Aurelio in una recente intervista al sito Aleteia –. Il Centrafrica è stremato da una storia fatta di colpi di Stato e un presente deciso dalla violenza delle milizie e dei gruppi armati che come funghi nascono per spartirsi il potere e un bottino tutto sommato misero. La situazione nella capitale è più tranquilla perché lì l’Onu ha investito molto, ma il resto del Paese, che non interessa quasi a nessuno, nemmeno al governo attuale, è per più dell’80% in mano a gruppi ribelli».
Il religioso è molto critico nei confronti del governo di Bangui. «Non ha abbastanza forza per imporre degli accordi» con i ribelli che, nonostante i cessate il fuoco, «rimangono sul territorio, lo controllano con le loro barriere, uccidono e vivono di criminalità». Ma anche le Nazioni Unite sono inerti, a parere del missionario. I caschi blu «non sono stati per ora in grado di mettere in campo una strategia per imporre il disarmo e aprire una prospettiva di pace. Effimeri appaiono oggi anche gli accordi di pace sostenuti dall’Unione Africana e da Sant’Egidio. Le strade per uscire sono molte e sono tutte difficili».
La Chiesa cattolica centrafricana è impegnata in un lavoro «di riflessione e formazione. Un lavoro di lungo periodo, ma ci vuole qualcosa di concreto adesso perché la situazione non ritorni nel baratro del 2013, quando è scoppiata la guerra civile tra milizie Seleka e anti-Balaka». Allora padre Aurelio, oltre ad occuparsi di dare acqua, cibo e un tetto alle migliaia di rifugiati che si erano riversati nella sua missione, aveva portato avanti un processo di mediazione tra le milizie di ribelli. Per questo lo avevano soprannominato «l’uomo che piega i fucili».
Perché ci deve stare un missionario lì in mezzo? Perché «la Parola di Dio ha un messaggio di liberazione, che va in profondità, perché abbiamo un impegno formativo, perché bisogna cercare di rendere la gente attenta ai problemi, ed evitare che si lasci guidare dalla voglia di vendetta».
Padre Aurelio non se n’è mai andato, nonostante i rischi personali, e continua il suo lavoro sul campo. Il 27 aprile si era recato lungo la riva del fiume Ouham per verificare se le industrie cinesi che estraggono l’oro avessero fermato i lavori e là è stato bloccato dai militari, che gli hanno sequestrato la macchina fotografica e il telefono, e lo hanno arrestato. Ma ben presto lo hanno rilasciato. «La gente è scesa in strada, felice della mia liberazione, ma inferocita con le autorità e soprattutto con la compagnia cinese – ha detto padre Aurelio –. Ritorno alla missione, ma nel frattempo in città la situazione diventa esplosiva: la gente sta erigendo barricate e un veicolo della compagnia cinese viene dato alle fiamme. Le persone minacciano di scendere nei siti dei cantieri per dare la caccia ai lavoratori cinesi. Così torno in città con il Prefetto e il Procuratore della Repubblica, e cerchiamo di calmare la popolazione. Ma proprio in quel momento,arriva a tutta velocità una macchina dell’esercito con una dozzina di uomini. Sono armati, ma la folla (3-4000 persone) si dirige verso di loro e li costringe a fare marcia indietro. I militari iniziano a sparare alle persone a distanza ravvicinata: ci buttiamo a terra e grazie a Dio nessuno rimane ferito!».
Dopo che i militari se ne sono andati, padre Aurelio si è rivolto alla popolazione esortandola a evitare altre azioni violente, ricordando però che «il problema dello sfruttamento selvaggio delle risorse naturali deve essere regolato dalla legge».