Il nord della Nigeria è tristemente noto per i sanguinosi attentati di Boko Haram. E per la severa legge coranica che regola la vita della popolazione locale. Ma in occasione del Durbar Festival nella città di Kano esplode una gioia incontenibile.
Squilli di tromba, rulli di tamburo, cavalieri armati di lance e stalloni bardati con paramenti sontuosi. Sembra il set di un colossal hollywoodiano. Invece è il corteo dell’emiro di Kano, uno dei più influenti leader politici e religiosi della Nigeria. L’occasione per vedere dal vivo il dignitario islamico, sovrano dell’omonimo Stato federato del Paese, è il tradizionale Durbar Festival: una cerimonia solenne introdotta nel XIV secolo.
Ritorno al passato
Durbar è parola di origine urdu. Nasce dall’unione di due termini: dar, “porta”, e bar, “udienza”, mettendo in rilievo la funzione di apertura del palazzo e dell’incontro dell’emiro con la comunità. L’evento si tiene due volte l’anno: all’indomani dell’Eid al-Fitr, la festa che celebra la fine del Ramadan, e in occasione dell’Eid al-Kabir, che indica l’apertura del pellegrinaggio alla Mecca. Il Durbar Festival è dunque collegato al calendario lunare dell’islam, a testimoniare il fatto che l’emiro esercita la sua autorità sia a livello religioso (è la guida suprema dei musulmani sunniti di questa regione) sia politico (amministra il territorio assieme al governatore).
Il Durbar raduna nella polverosa città di Kano centinaia di capivillaggio e una moltitudine impressionante di sudditi, oltre un milione di persone appartenenti per lo più al gruppo linguistico hausa, desiderosi di manifestare deferenza a Sua Maestà l’Incorruttibile. Sul Durbar, l’americano Sulayman Nyang, preside del dipartimento di studi africani dell’Università di Howard, ha usato parole dure: «Sono abili manipolazioni della tradizione al servizio del potere secolare e di coloro che abbiano un’autorità religiosa residuale».
Il legame di affetto e sottomissione che lega il popolo al suo emiro affonda le radici nella storia medievale: il re proteggeva (con il suo esercito) i confini del regno, amministrava campi e pascoli, interpretava il diritto islamico, risolveva le controversie nella comunità. Oggi l’emirato è scomparso dalle mappe: le moderne frontiere dello Stato federato di Kano si sono sovrapposte a quelle dell’antico regno. Tuttavia l’influenza del monarca rimane inalterata, così come il prestigio che gode e il potere che esercita.
Irraggiungibile
A ben guardare, non è cambiato granché rispetto al passato. Nel suo imponente palazzo, vecchio di cinquecento anni, l’emiro riceve politici nazionali, diplomatici, leader stranieri, rappresentanti dell’economia e delle organizzazioni internazionali. S’inginocchiano davanti a lui su una moltitudine di tappeti rossi. Alcuni vengono a portare omaggi e saluti, altri chiedono autorizzazioni per costruire o avviare qualche business, altri ancora espongono problemi o questioni che necessitano del suo intervento.
Seduto sul suo trono, il volto imperscrutabile, il sovrano ascolta in silenzio i visitatori che si susseguono: non tradisce emozioni né fa cenni di assenso o di disapprovazione. Il protocollo non gli consente di parlare direttamente ai sudditi. I dialoghi avvengono tramite consiglieri accovacciati ai piedi del trono.
La forza dell’emiro
A palazzo lavorano duemila persone orgogliose di servire il sovrano: camerieri, cuochi, addetti alla sicurezza, musicisti, poeti, responsabili dei ricevimenti, maniscalchi, annunciatori, osannatori, intrattenitori degli ospiti… Un vero esercito di servitori organizzato secondo una rigida gerarchia che si tramanda da secoli.
La Nigeria è una terra immensa e frammentata, coacervo di quattrocento gruppi etnici. I monarchi dell’era precoloniale sono indispensabili per garantire l’ordine sociale: senza la loro autorità, la nazione volerebbe in pezzi. Per questo il governo di Abuja si assicura la loro fedeltà, malgrado tale alleanza celi spesso interessi opachi e comportamenti ambigui. Per chiarire quanto sia potente l’azione politica delle autorità tradizionali, ricordiamo che, alla fine degli anni Sessanta, fu l’emiro di Kano a ordinare in una notte l’eccidio dei cristiani di origine igbo nei suoi territori, in risposta ai massacri e alle esclusioni che questi, dopo un colpo di Stato, avevano perpetrato contro i Fulani e gli Hausa per gestire in proprio il petrolio del Sud-est. Ne nacque la guerra di secessione del Biafra.
Un nuovo sovrano
L’attuale emiro di Kano, Lamido Muhammad Sanusi (la parola lamido deriva dal fulfulbe, lingua dei Fulani, con la radice laam, “guidare”, per cui traducibile con “leader”), è salito al trono due anni fa, all’indomani della scomparsa di Ado Abdullahi Bayero, morto nel giugno del 2014 all’età di 83 anni. Della stessa dinastia del predecessore, Lamido Sanusi è uomo di cultura e di solide relazioni, ha viaggiato in Europa e Stati Uniti, il suo curriculum gli permette di coniugare il passato con il presente, l’amministrazione locale con la politica nazionale e internazionale. Prima di prendere possesso del palazzo reale, lavorava nella sede della Banca Centrale della Nigeria, dove rivestiva il ruolo di governatore (l’allora capo di Stato Goodluck Jonathan lo rimosse nel febbraio 2013, accusandolo di malversazione e distrazione di fondi e finanziamento occulto di milizie antigovernative).
Sotto attacco
Oggi la Nigeria è governata da Muhammadu Buhari, musulmano originario del Nord. L’emiro di Kano è un suo fido alleato nella gestione di una regione devastata dalla violenza di Boko Haram. Dal 2009 le incursioni del movimento, divenuto in seguito una costola sanguinaria dell’Isis in Africa occidentale, hanno causato almeno ventimila morti, due milioni di profughi e sei miliardi di dollari di danni.
Benché nell’ultimo anno l’esercito abbia inferto pesanti sconfitte al gruppo jihadista, la tensione resta alta. La città stessa di Kano, più di tre milioni di abitanti, è stata insanguinata da attentati in mercati e luoghi pubblici. Nel novembre 2014 un’esplosione colpì la moschea centrale, situata accanto al palazzo dell’emiro (che in quel momento non era presente). L’atto terroristico, 120 morti e 270 feriti, fu interpretato come un attacco frontale di Boko Haram alla seconda autorità religiosa del Paese (la massima autorità islamica in Nigeria è il sultano di Sokoto). «Non ci faremo intimidire né spingere ad abbandonare la nostra religione, come vorrebbero questi aggressori», tuonò Lamido Sanusi all’indomani della strage. Ma i leader di Boko Haram invitarono i «veri musulmani a sbarazzarsi dell’impostore che si autoproclama “guida islamica”».
Reality show
Nello Stato di Kano, popolato da dieci milioni di musulmani, vige la sharia, il che gli conferisce una reputazione piuttosto severa. Ai ladri, secondo l’ordinamento islamico, andrebbero amputate le mani, gli apostati meriterebbero di essere flagellati, le adultere di essere lapidate. Per fortuna tali punizioni sono comminate di rado dai tribunali religiosi. Ma non tutti apprezzano. I fanatici di Boko Haram rimproverano all’emiro di incarnare un islam troppo mite, tollerante, dialogante.
In realtà è la stessa popolazione che rifiuta l’oscurantismo predicato dai fondamentalisti e gli incitamenti all’odio contro chi professa religioni diverse. Kano è una metropoli caotica e congestionata, in bilico tra modernità e tradizione. Dopo la preghiera della sera, la gente si raduna davanti alle tivù al plasma per seguire i reality show e i serial di Nollywood captati dalle parabole. I giovani smanettano sugli smartphone e si scambiano video e musica sui social network. Ma in occasione delle ricorrenze tradizionali, come il Durbar Festival, l’intera città pare piombare in un’atmosfera d’altri tempi. I sudditi si accalcano ai bordi delle strade, si arrampicano su alberi e muretti, per ammirare il corteo in cui sfilano trentamila notabili e centinaia di cavalli e cammelli. Attendono impazienti il passaggio dell’emiro.
Sua Altezza compare in sella a uno stallone bianco. È coperto da drappi bianchi e occhiali oscuri, protetto da un enorme ombrellone, circondato da severe guardie del corpo, inafferrabile e sfuggente come si conviene a una personalità a metà strada fra terra e cielo. «Gloria all’invincibile guida di Allah», urlano i sudditi, mentre scattano foto coi cellulari.
(Alberto Salza e Gisèle Yambuya)