Il 2019 è stato un anno molto importante per la Rd Congo: il 24 gennaio al Palazzo della Nazione di Kinshasa si è insediato ufficialmente il quinto presidente dall’indipendenza dal Belgio nel 1960, Félix Antoine Tshisekedi Tshilombo, che circa un mese prima, il 30 dicembre 2018, aveva vinto le elezioni. Queste erano avvenute oltre due anni dopo la fine del mandato costituzionale del presidente precedente, Joseph Kabila, il quale, a sua volta, aveva preso il potere con le forze armate nel 2001, dopo un decennio di conflitti sanguinosi e cruenti.
Il nuovo presidente è figlio di Étienne Tshisekedi, ex primo ministro negli anni Novanta sotto la presidenza di Mobutu, poi oppositore di Kabila, morto nel febbraio 2017, e la sua elezione è una tappa importante nella storia contemporanea del grande Paese africano, uno dei più estesi del continente, nonché uno dei più ricchi di materie prime, eppure anche uno dei più turbolenti dal punto di vista socio-politico.
È un’elezione storica innanzitutto perché si tratta di una pacifica transizione di potere, la prima nell’Rd Congo, poi perché è stata un’elezione interamente organizzata e finanziata dal Paese, cioè senza il supporto di istituzioni esterne, a cui hanno partecipato circa 18 milioni di votanti, ossia il 47% degli aventi diritto. Attesa con speranza e preoccupazione, la nuova elezione può rivelarsi decisiva per il futuro della Rd Congo perché, almeno formalmente, pone fine all’era di Joseph Kabila e, dunque, con le terribili guerre degli anni Novanta, tuttavia l’ombra dell’ex presidente sembra estendersi anche sul nuovo corso perché, sebbene Tshisekedi fosse espressione delle opposizioni, sono state piuttosto insistenti le voci che di incontri, prima delle votazioni, tra i due leader, in qualche modo confermati dalla prima dichiarazione del nuovo Capo di Stato, il quale ha esortato a «non considerare più Kabila come un avversario, bensì come un partner nel cambiamento democratico nel nostro Paese».
Il presidente Tshisekedi è stato accolto come una novità da parte della popolazione, ma parallelamente è stato contestato dai seguaci Martin Fayulu Madidi, il secondo arrivato alle elezioni, che ha definito la proclamazione del suo avversario «un vero e proprio putch elettorale». La situazione interna, dunque, è tutt’altro che stabile e questo, di riflesso, si riverbera sul piano internazionale, ossia sulla regione dei Grandi Laghi, i cui presidenti hanno manifestato in maniera alquando esplicita il loro imbarazzo per l’esito delle elezioni, disertando .in massa la cerimonia d’investitura, a cui ha partecipato un solo capo di Stato straniero, il kenyota Uhuru Kenyatta, mentre in rappresentanza degli altri Paesi esteri ci sono stati solo ambasciatori.
Questi cenni di cronaca relativi alle vicende più recenti della storia congolese intendono rendere manifesta la complessità del suo panorama politico-istituzionale, nonché la sua estrema fragilità. Ed è proprio a questo proposito che risulta particolarmente utile il volume La Repubblica Democratica del Congo. Conflitti e problematiche socio-territoriali, curato nel 2018 da Francesco De Pascale, Luca Jourdan e Kalenge Nguvulu Chris per Il Sileno Edizioni.
Il libro, che è open-access e scaricabile in formato pdf dal sito-web dell’editore, raccoglie 12 contributi elaborati da ricercatori di discipline diverse: dalla geografia alle scienze politiche, dall’africanistica alla sociologia dell’ambiente, dalla filosofia della comunicazione all’antropologia medica, dai migrant studies ai gender studies e così via. I motivi di interesse del volume sono molteplici e argomentati, ma soprattutto sono ben esplicitati nelle conclusioni, appunto intitolate «Dove va il Congo?», in cui i tre curatori, pur lasciando la domanda aperta, com’è ovvio e saggio, riflettono sull’evoluzione del quadro politico congolese. Senza pretendere di elaborare alcuna previsione, Jourdan, Kalenge e De Pascale sondano le possibili conseguenze e derive della crisi attuale, di cui l’elezione del presidente Tshisekedi, come scrivevo in apertura, può rappresentare una tappa o una svolta.
Questo libro, pertanto, è uno strumento essenziale per comprendere la complessità, la profondità e la multidimensionalità della crisi che attanaglia il gigante dell’Africa centrale e per cogliere, tra le tante ragioni, che ad esempio l’instabilità talvolta può essere prodotta dagli stessi negoziati di pace. Questi, infatti, spartendo il potere tra i diversi beligeranti e, in altri termini, affidanto posizioni di prestigio nelle istituzioni politiche e in quelle militari agli attori più facinorosi, non fanno che gettare le basi per futuri conflitti: «quando la violenza premia, infatti, è inevitabile che tenda a perpetuarsi» (p. 212).
Il volume è organizzato in tre sezioni incardinate su determinati concetti: «Alle radici del conflitto», «Società e ambiente fra guerra e crisi politica», «Infanzie». Nei quattro contributi della prima parte – di Anna Caltabiano, Isabella Soi, Valeria Dattilo e Luca Jourdan – si affronta in modi diversi il concetto di etnia. Come ricorda Jourdan, l’etnicizzazione delle società africane è uno dei prodotti più nefasti del colonialismo: «le divisioni etniche, infatti, vennero esacerbate e talvolta inventate di sana pianta nel quadro di una strategia di governo basata sulla classica logica del dividi et impera» (p. 68).
L’etnia, cioè, è un elemento di appartenenza più fluido e duttile di quanto si immagini, come spiega Anna Caltabiano a proposito dei rifugiati rwandesi e burundesi della metà del Novecento che, spinti dalla necessità di distinguersi dal successivo flusso di rifugiati degli anni Novanta, cominciarono a farsi chiamare banyamulenge: «l’identificazione della propria “etnia” con il territorio di Mulenge avrebbe poi consentito loro di avere accesso a diritti sulla terra altrimenti negati dalla nuova legislazione sulla nazionalità» (p. 30). Questa necessità di riconoscersi, nel senso dell’Anerkennung hegeliano, che porta con sé anche alcune possibili varianti come il disconoscersi o il misconoscersi, è analizzata da Valeria Dattilo in merito alle varie guerre che si sono combattute in Rd Congo come un sintomo della debolezza delle istituzioni politiche. Questo, precisa Isabella Soi, è di particolare evidenza nella parte più orientale del Paese, ossia nella regione del Kivu, quella maggiormente coinvolta nelle violenze degli ultimi decenni e da cui tutte le guerre congolesi hanno avuto origine.
I cinque saggi della seconda sezione sono attraversati dal concetto di ambiente, inteso nella duplice accezione di ecosistema sociale e naturale. Innanzitutto, l’articolo di Kalenge, Lupia e Palmieri e quello di Jourdan indagano l’impatto degli sfollati interni su una società già ampiamente fragile e come la marginalità che ne deriva alimenti la proliferazione di milizie sempre più allo sbando. Come spiegano gli autori, lasciare il proprio luogo non è il risultato di una libera scelta, ma una forzatura che costituisce «una forma di deprivazione delle capacità e [può] influire negativamente sulle altre capacità» (p. 87). Al contempo, sebbene la formazione di milizie sia un fenomeno presente già in epoca pre-coloniale, esso è aumentato notevolmente con «l’espansione del capitalismo mercantile all’inizio del XIX secolo» (p. 100).
Gli altri tre articoli di questa sezione, ossia quelli firmati da De Pascale, Kalenge e Bernardo, da Colloca e da Soggiu, si focalizzano sulla relazione col territorio, la cui enorme ricchezza in RDC è paradossalmente anche una terribile condanna alla violenza. In tali contributi il degrado ambientale viene incrociato con le disuguaglianze sociali, dovute sia a fattori interni che internazionali: «una diminuzione della quantità di risorse, combinata con una rapida crescita della popolazione e l’accesso alle risorse diseguale, può aumentare i rischi di conflitti ambientali correlati» (p. 119); «il problema del conciliare l’urbanizzazione crescente con uno sviluppo sostenibile [è forte] in contesti dove gli insediamenti assumono la forma di baraccopoli, particolarmente vulnerabili al clima e costruiti in siti geologicamente ad alto rischio» (p. 131); «[per] disinnescare conflitti locali [bisogna] ripartire le responsabilità dello sviluppo fra autorità locali e nazionali, [così da eliminare] la minaccia della marginalizzazione, causa prima del continuo riemergere di conflitti nella RDC» (p. 160). Ne deriva che, per affrontare problematiche così profonde ed estese, bisogna ricorrere alla “geoetica”, ossia ad «un’analisi critica dell’uso delle risorse naturali [che evidenzia] l’importanza degli aspetti educativi e comunicativi nelle scienze geologiche» (p. 16, 113 et sgg.).
La terza ed ultima parte del volume, infine, riguarda le «infanzie», al plurale. Molto interessante il contributo di Francesca Marone che avverte sul rischio di un «continuum genocida» se non si lavora di prevenzione proprio sull’infanzia, sottolineando «l’importanza di vigilare e non perdere il contatto con se stessi e la propria umanità» (p. 187). E a questo proposito appare particolarmente istruttiva, anche per noi in Italia e in Europa, l’esperienza raccontata da Emanuele Cartella di un laboratorio interculturale tenutosi presso un istituto superiore calabrese, ispirato al libro “Nel cuore della guerra” di Chris Kalenge, reduce delle guerre in Congo.
Un’ultima annotazione va fatta sulla casa editrice, la piccola Il Sileno Edizioni, di Rende (Cosenza), che nelle sue pubblicazioni segue un approccio accademico, dal momento che è dotata sia di un nutrito comitato scientifico internazionale, sia di procedure peer-review per la selezione di ogni contributo. In un’epoca di crisi dell’editoria, questa cura è segno di particolare impegno e coraggio che, con tutta evidenza, contagia ricercatori e studiosi italiani e stranieri. La volontà di investire su argomenti così specialistici e di renderli accessibili a chiunque è l’indicatore di un impegno non solo culturale, ma soprattutto civile. E, infine, questo è lampante anche da un ulteriore dettaglio: il libro La Repubblica Democratica del Congo. Conflitti e problematiche socio-territoriali è il primo della collana Geographies of the Anthropocene, a cui hanno fatto seguito altri titoli sul rapporto tra natura e cultura, che è senza dubbio il tema più epocale, nelle sue multiple e mutevoli forme, su cui la nostra generazione è chiamata a riflettere e ad agire.
(Giovanni Gugg)