Giù le mani dalla Guinea Conakry. È perentorio l’attuale presidente, Alpha Condé. Un presidente che vuole mettere mano alla Costituzione del Paese così da poter candidarsi per un terzo mandato. «Nessuno imponga alla Guinea che cosa fare», risponde così Condé al ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, che aveva espresso preoccupazione per la situazione in Guinea. Un Paese che sta andando verso una crisi politica e istituzionale estremamente grave.
E Condé prosegue sottolineando che il Paese è aperto «alle discussioni con i nostri partner, ascoltiamo i loro consigli, ma nessuno imponga alla Guinea cosa fare». Aperto a tutti i consigli, tranne a quelli della popolazione che dal mese di ottobre, cioè da quando il presidente ha preannunciato una revisione della Costituzione, manifesta per le strade non solo della capitale, ma anche in molte altre città. Manifestazioni e proteste represse con violenza. Da allora ci sono stati 28 morti e numerosissimi feriti. La sfacciataggine del presidente, tuttavia, è disarmante: «Sono le persone della Guinea che decidono il loro futuro, questo deve essere molto chiaro a tutti». Proprio a tutti tranne che a lui.
La Guinea è un Paese ricco di risorse, ma poverissimo. Come spesso accade in Africa, le ricchezze del sottosuolo rappresentano una iattura per le popolazioni che vivono in quei territori. Risorse che hanno poco valore per chi le estrae – la manovalanza – e molto per i regimi e chi poi le sfrutta. Conakry è il secondo produttore mondiale di bauxite, la principale fonte di produzione dell’alluminio, ma sembra più una maledizione per i guineani. Le ricadute sull’economia reale sono irrisorie. Basta fare quattro passi per la capitale per vedere, senza nemmeno il bisogno di cercare, le discariche a cielo aperto. L’intera capitale, tranne qualche area riservata ai benestanti, sembra proprio una discarica. Anche la spiaggia – Conakry si affaccia sull’Oceano Atlantico – è un immondezzaio. La gente si ingegna come può, ricavando dall’immondizia ciò di cui vivere. La Guinea è ricca di oro, con 700 tonnellate di riserve stimate e con una produzione annua di 75 tonnellate; di diamanti, fra le migliori qualità al mondo con riserve di 30 milioni di carati accertate e 50 milioni presunte; di ferro, forse la più grande riserva inesplorata al mondo, e petrolio. Ma le ricadute sull’economia reale sono irrisorie.
I numeri, poi, sono impietosi: il Pil pro capite annuo è di 612 dollari, l’Indice di sviluppo umano (Isu) è 0,344, uno dei più bassi al mondo, l’inflazione è all’8,9% – la Guinea pur essendo un ex colonia francese non adotta il franco Cfa –, la popolazione che vive in povertà, cioè con meno di due dollari al giorno, è pari al 76,8%, l’insicurezza alimentare colpisce quasi 2 milioni di abitanti su una popolazione di 13. Per non parlare della corruzione, che è endemica. Solo per fare un esempio: il servizio per cui si corrompe di più – 41% – è la sanità, un bene primario non garantito.
Le riforme introdotte per combattere la corruzione sembrano essere più simboliche che sostanziali, tese, piuttosto, a dare segnali alla comunità internazionale. Ma il Paese è undicesimo fra i Paesi più fragili al mondo, al 153° posto su 190 per facilità di iniziativa economica e 119° su 137 per competitività.
Insomma i due mandati di Condé non hanno prodotto grandi benefici per la popolazione. Tuttavia il presidente insiste con il voler cambiare la Costituzione e argomenta così: «La Guinea ha bisogno di una Costituzione moderna, che soddisfi le esigenze del mondo d’oggi». E aggiunge: «Facciamo un passo indietro: il motivo per cui non ho cambiato la Costituzione è perché, quando sono salito al potere, ho ereditato un Paese ma non uno Stato, non c’era l’elettricità, non c’era l’acqua, non c’erano strade, non c’erano alberghi e così via, quindi per me la priorità era innanzitutto quella di risolvere le questioni macroeconomiche di base».
I numeri, però, gli danno torto e allora lui rilancia sostenendo che «nel mondo d’oggi abbiamo bisogno di una Costituzione che risponda alle esigenze moderne, che non ha nulla a che fare con le presidenziali». La gente scende nelle piazze e protesta, proprio perché non vuole più Condé al potere, visto che tutte le promesse fatte sono state disattese. I numeri che abbiamo visto prima sono lì a dimostrarlo.
Oltre ai problemi economici vi sono questioni anche più strettamente politiche e sociali a rendere ancora più tesa la realtà del Paese. Il deterioramento del clima politico e sociale è evidente ed è stato stigmatizzato dal clero cattolico guineano, che si è riunito in assemblea questa settimana a N’zérékoré, nel Sud-est del Paese. In Guinea, spiegano i sacerdoti, ormai vige «regionalismo, nepotismo, etnocentrismo, favoritismo, ingiustizia e clan». E la repressione delle forze di sicurezza del Paese peggiora di giorno in giorno. «L’attuale tensione è grave – affermano – a causa della perdita di vite umane e della distruzione della proprietà. Tutto ciò sta causando paura e profonda tristezza tra la gente. La nostra democrazia viene messa al servizio del regionalismo, del nepotismo, dell’etnocentrismo, del favoritismo, dell’ingiustizia e dei clan. La violenza e i crimini impuniti sono in aumento».
Il clero chiede al presidente della Guinea «di rinunciare al terzo mandato, rispettare l’attuale Costituzione e portare pace, armonia e riconciliazione nel Paese». Ma Condé non ci sente e va dritto per la sua strada, popolo o non popolo.
(Angelo Ravasi)