Santu Mofokeng, fotografo della responsabilità

di Stefania Ragusa

Ci ha lasciato, qualche giorno fa, un gigante della fotografia, non solo africana. Santu Mofokeng è stato uno scrittore per immagini più che un fotografo. Ha raccontato la vita quotidiana a Soweto, durante l’apartheid, schivando stereotipi e manierismi, superando il punto di vista soggettivo per incontrare i soggetti dei suoi scatti, il non detto delle loro vite. Per dirla con James Baldwin: «l’evidenza delle cose che non si vedono».
Mofokeng era nato nel 1956 a Johannesburg. Si era avvicinato alla fotografia per guadagnarsi il pane, ma piano piano ne aveva fatto una ragione di vita e un formidabile strumento di indagine, scoperta e narrazione.
Nei suoi scatti troviamo spesso giochi di ombre e movimento. Ossia due elementi in apparenza antitetici rispetto a un mezzo che cerca l’istante e si serve della luce per costruire il suo discorso. Mofokeng si è interrogato molto sulla responsabilità del fotografo rispetto a quel che fotografa e sul suo diritto di imporre una visione.
Avevamo sperato di incontrarlo nel 2016, quando la Fondazione per la Fotografia di Modena (oggi assorbita in Fondazione Modena Arti Visive) gli ha assegnato un prestigioso premio e dedicato la retrospettiva A Silent Solitude. Lui però stava già male, e aveva dovuto dare forfait. Lo ricordiamo qui con uno dei suoi scatti più intensi e solo apparentemente casuali: Chief More’s Funeral (1989). Un ampio paesaggio inquadrato da lontano, un autobus preceduto da un carro funebre. A una certa distanza, due donne immobili. Un uomo di spalle si affretta a raggiungere il corteo sorto dal nulla. Il punto di vista della foto sembra essere il suo. Una piccola folla nel mezzo della vastità e una strada.

(Stefania Ragusa)

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