Se il passaporto (italiano) non è più un privilegio

di Stefania Ragusa

Ci ho provato. Ci ho provato in tutti i modi a lasciare l’Italia, a partire. Non perché volessi scappare, no. Semplicemente perché ho una vita che in questi anni ho faticosamente costruito in un Paese africano.
Ma le porte si son chiuse, una dopo l’altra. Volo cancellato, difficoltà di ri-prenotazione e, alla fine, ultima chance, posto in business class a 2.200 euro circa. Ultimo volo. No, quella cifra non posso permettermela.
E dunque? E dunque, da italiana, anche se con una vita spezzata tra qui e lì, dovrò restare qui.
Che ironia… che ironia quando l’ambasciata del Paese in questione ha smesso il rilascio dei visti ma io non ho bisogno di visto, io vivo lì da anni! Che ironia aver sperimentato in tutti questi anni il privilegio di poter andare, entrare, uscire, decidere quando e se partire, quando e se tornare. Che ironia aver scritto e cercato di sensibilizzare sul “potere” dei passaporti. Su chi ha il “diritto” di viaggiare qua e là per il mondo su voli economici o di lusso (possiamo scegliere) e chi non ha altre strade che il deserto, il mare. Non ha altri mezzi che i propri passi e poi un gommone o un’imbarcazione scassata. Che ironia essere io quella in preda all’ansia, al panico.

Frontiere chiuse. Voli sospesi. Privilegio finito. Mentre da lì un marito, quello dal quale vorresti tornare (anche le disposizioni del Governo lo prevedono, in teoria) ti informa “qui non si fa che parlare di coronavirus e voi italiani”. Gli appestati, gli untori, quelli che è meglio tenere lontani. Non solo e non più a distanza di sicurezza. Lontani.
Un marito che solo qualche giorno fa era sorpreso dalla nostra stampa, dalle misure di prevenzione, dal panico. “Non capisco. E allora l’ebola? La malaria? Un virus va, uno viene”. No, non è scelleratezza, irresponsabilità. È semplicemente “abitudine all’emergenza”, abitudine al dramma, che diventa vita quotidiana, abitudine alla morte. Che semplicemente sta nella vita. Abitudine ad affrontare l’imprevedibile. Noi no. Io no.
Con quel passaporto speravo di cavarmela, di tornare a casa o ovunque decidessi di andare. Invece no. Quel rosso/bordeaux è oggi simbolo di pericolo, di quarantena, di isolamento, di distanza. Dagli affetti, da un mondo che hai amato e che ami, che difendi ogni volta che puoi dai pregiudizi e dall’ignoranza, che hai scelto perché ti ha scelta e dove vuoi solo ritornare. Niente di più. No, non avevo bisogno che in aeroporto mi guardassero in modo strano e mi facessero tante domande sul perché volessi andare in Africa, se ne avessi diritto e in possesso della documentazione che attestasse che sì, potevo partire. Non avevo bisogno di giorni e notti di tensione per cercare una soluzione alternativa, una strada alternativa. Non ne avevo bisogno per sentirmi enormemente a disagio.

Non ne avevo bisogno perché in questi anni ho osservato, parlato, riflettuto sulla mia e la “loro” condizione. La condizione di chi ha il passaporto sbagliato, il passaporto inutile. Tanto inutile che è meglio rischiare la vita per arrivare in Europa visto che non puoi aspirare né a un visto, né a un volo aereo. Non ne avevo bisogno ma comunque è una lezione. Per me, come spero per tanti.
Non sono ottimista, non senza prove (che poi è un ossimoro). E dunque non sono convinta che quando avremo superato quest’emergenza causata da un virus silenzioso e mortale le nostre menti si saranno resettate per lasciare spazio alla comprensione, solidarietà, empatia. Però almeno ognuno dovrà trarne la propria esperienza.
Io dovrò imparare ancora, capire. Se non altro perché da anni mi muovo tra due culture, tra due approcci alla vita, tra due modi di essere al mondo. Il mio, il nostro, fatto di certezze granitiche (quanto poco certe, quanto poco granitiche!), di privilegi acquisiti e scontati, di superbia che non lascia spazio all’indeterminatezza.
L’altro, il “loro”, fatto di vita quotidiana, allarmi che vanno e vengono, saggio fatalismo, accettazione del corso degli eventi, riconoscimento del fatto che la natura non si può (o non si dovrebbe) assoggettare alla nostra avidità, perché poi – prima o poi – qualche tragedia accade.

Io e il mio inutile passaporto ora siamo qui, alla scrivania. Lui (il mio strumento di privilegio) aspetta di tornare presto a dimostrare la sua forza. Perché prima o poi accadrà. Io volerò, tornerò “a casa” e ringrazierò quel Paese africano per avermi accolta.
Per “loro”, non tutti ma per molti di loro, non sarà così. Il loro passaporto resterà un inutile orpello, prova concreta che la democrazia, i diritti umani e civili non passano attraverso un pezzo di carta, convenzioni, dichiarazioni. Prova concreta di una presa in giro colossale. Questo però i virus non lo sanno, e così se ne vanno in giro a seminare terrore e morte anche tra i privilegiati della terra. Oggi, quei privilegiati siamo noi.
Per gli altri – e non parlo solo dell’Africa, ma della Siria, Yemen, Corea del Nord, Afghanistan (mi fermo, la lista è troppo lunga) le barriere, le frontiere continueranno ad esistere. E non certo come misure estreme per tenere a bada virus invisibili e letali.

(Antonella Sinopoli)
*Articolo uscito su Voci Globali e che ripubblichiamo per gentile concessione dell’autrice

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