Il periodo coloniale e il confuso presente. I remoti villaggi e le babeliche megalopoli. Il compianto Raffaele Masto ha raccontato l’Africa da diversi punti di vista. Abbiamo qui raccolto alcune sue ulteriori riflessioni sul continente
Il colonialismo
Il colonialismo, dopo aver vinto e sottomesso l’Africa che procedeva per la sua strada, a un certo punto, mutate le necessità di espansione e di controllo di mercati e materie prime, l’ha lasciata a se stessa con il risultato che gli africani non potevano più tornare indietro e riprendere la vecchia strada, né erano più in grado di andare avanti autonomamente. Una paralisi, appunto, che si esprime in diverse forme, anche con la guerra che in Africa è spesso conflitto tra etnie. Etnie che, se nella storia autoctona del continente avevano un senso, inserite nel contesto della nostra storia occidentale appaiono invece assurde e incomprensibili.
Le religioni tradizionali
In Africa le religioni tradizionali sono fortemente radicate nella popolazione di ogni ceto e non sono solo una questione di riti, ma qualcosa di più. Sono un’interpretazione del mondo e della vita che la civiltà vincente non è riuscita ad estirpare. L’africano può essere cattolico, protestante o islamico, ma per lui il culto degli antenati è qualcosa che va oltre la religione che dice di professare. La stessa cosa vale per il rapporto con la natura, o per la sacralità dei legami della famiglia.
Il peso della storia
Oggi l’Africa è contraddittoria, per molti versi senza identità, attraversata da idee, tendenze, aspirazioni che provengono dall’esterno e nello stesso tempo quasi chiusa in se stessa, incapace di individuare un proprio percorso e contemporaneamente incapace di introiettare cultura e orientamenti dell’Occidente e intraprendere fino in fondo quella via. Tutto ciò dipende certamente dal fatto che l’estrema povertà dei Paesi africani rende difficoltoso qualunque progetto di sviluppo, ma è anche un peso del passato, della storia.
Modelli sbagliati
In Africa entrare in un supermercato è un’esperienza sconcertante. Interi banconi sono riempiti con prodotti per schiarire la pelle e per rendere lisci i capelli crespi. Sono destinati principalmente alle donne delle classi agiate, che si possono permettere di acquistarli. Le più povere, anche nei villaggi più sperduti, ci provano con intrugli di erbe e paste naturali, con le quali si impiastrano il viso e le gambe. Per entrambe si tratta di una pratica autolesionistica che spesso le lascia irrimediabilmente deturpate. Eppure non demordono.
Noi e l’Africa
Prendendo a prestito un paragone fotografico, si potrebbe dire che l’Africa è il nostro negativo, qualcosa che non è un’immagine compiuta, ma contiene tutti gli elementi per esserlo. Come dire che nell’Africa vediamo quell’istinto alla sopravvivenza, quella sfida alla selezione naturale, quel quid di selvaggio che c’è in noi e che non abbiamo più bisogno di esibire e utilizzare. E il nostro sguardo è velato da una certa nostalgia perché non possiamo non renderci conto che il nostro sicuro Occidente è la decadenza, mentre l’Africa è il futuro. Anche visivamente questa differenza ci salta agli occhi: gli africani hanno corpi asciutti, atletici, elastici, mentre le nostre sono società di obesi perennemente a dieta. Siamo popoli di anziani stanchi ed emarginati mentre l’Africa, con i suoi 700 milioni di persone, è un continente di prorompente vitalità, dove il 70 per cento della popolazione ha meno di quindici anni. Gli africani hanno una caratteristica sostanziale: sanno vivere in modo totalizzante il presente. A differenza di noi occidentali, non sono oppressi, spaventati, minacciati da un futuro incombente che cerchiamo continuamente, e quasi sempre invano, di programmare, prevenire, organizzare. Per loro il tempo è fatto di presente, appunto, e di passato, un passato che non si ferma al momento della loro nascita ma procede all’indietro nel tempo vissuto dagli antenati. Questa dimensione consente loro di possedere una maggiore libertà, di giocarsi tutto giorno per giorno e di farlo essenzialmente senza l’assillo di accumulare, di costruirsi ricchezze. In questo senso sono aiutati dal fatto che, nella grande maggioranza dei casi, non possiedono già nulla, vivono nell’indigenza più totale.
Le megalopoli africane
Le grandi città africane sono delle specie di mostri, un condensato di questo dualismo che, oltre a paralizzare la società, paralizza anche gli individui. Nairobi, Kinshasa, Lagos sono bolge ribollenti dove c’è di tutto: dalla cultura tradizionale del villaggio al mito del mondo delle corse automobilistiche, dagli stregoni al culto delle scarpe da tennis firmate, dallo status symbol degli occhiali da sole Rayban alle migliaia di quarantenni ciechi per malattie curabili come il glaucoma o la congiuntivite.
Gli slum
Le città non crescono più nella loro parte moderna, si allargano nelle cinture periferiche delle baraccopoli che assediano un centro sempre più piccolo e quasi anacronistico. Nel loro degrado, nella loro promiscuità di perdono anche i valori profondi degli africani. Un segnale preoccupante è che da qualche anno il fenomeno dei bambini di strada è diventato consistente. Si tratta di bambini che non hanno più famiglia, che sono stati abbandonati o che trovano più conveniente vivere da soli piuttosto che con genitori che non sono in grado di sfamarli. É un fatto clamoroso per l’Africa dove gli orfani non sono mai stati lasciati a se stessi, perché il legame della famiglia allargata è talmente forte da farsi carico anche dei bambini che perdono i genitori. L’estensione di questo fenomeno significa che anche quel legame si sta perdendo e gli africani, in quanto individui, saranno ancora più soli e smarriti. Eppure in queste bolge infernali che sono gli slum c’è qualcosa di affascinante, qualcosa di non codificabile, che sfugge allo sguardo razionale dell’occidentale, ma gli tocca quelle corde profonde che non è più abituato a sollecitare. Qualcosa che forse ha a che fare con quell’elemento primordiale che ancora, tenacemente, si manifesta.
(Raffaele Masto)