Pare decisamente troppo presto per parlare di dopo-Covid per l’Africa, regione del mondo che neppure è entrata “con due piedi” nell’epidemia. Ma c’è già chi prova a guardare avanti, perché, comunque vada, le cose non saranno più, né dovranno essere, come prima.
Il 3 aprile si è tenuta una videoconferenza tra dieci capi di Stato e di governo, sotto l’egida dell’Unione Africana e su iniziativa del capo dello Stato sudafricano Cyrol Ramaphosa, presidente di turno dell’Ua. A tema c’era l’elaborazione di un piano comune per far fronte all’emergenza Sas-CoV-2, e hanno preso parte all’incontro virtuale, il secondo in una settimana, anche il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus nonché il presidente francese Emmanuel Macron, oltre allo stesso presidente della Commissione dell’Ua, Moussa Faki Mahamat e al direttore di “Africa Cdc”, il Centro di controllo delle malattie promosso dalla Ua. Gli altri Paesi del continente rappresentati al massimo livello erano Egitto, Etiopia, Kenya, Mali, Rd Congo, Ruanda, Senegal, Zimbabwe. Tra i punti di accordo evidenziati nel comunicato finale, la creazione di coordinamenti ministeriali su scala continentale riguardanti sanità, finanze e trasporti, e la richiesta di un sostegno «rapido e concreto» al G20, Banca Mondiale e Fmi, in particolare chiedendo a quest’ultimo di aumentare la disponibilità dei Diritti speciali di prelievo (Dts; il cosiddetto “oro di carta”). I capi di Stato e di governo che compongono il Bureau dell’Ua hanno inoltre chiesto la rimozione immediata delle sanzioni imposte a Zimbabwe e Sudan «per consentire loro di reagire in modo adeguato alla pandemia e salvare delle vite umane».
Finestra di opportunità
Questo, per dare atto della preoccupazione e di quanto si muove ai piani alti della politica. Intanto c’è chi, senza minimizzare la portata della minaccia, all’indomani della teleconferenza Ua si è ricordato della celebra frase di Winston Churchill «mai sprecare una buona crisi» e cerca di guardare oltre. Per esempio Yann Gwet, giornalista e analista camerunese residente in Ruanda. Reagendo a una nota del centro di ricerca del ministero degli Esteri francese uscita il 1° aprile e molto commentata nel continente, sull’«effetto pangolino» in Africa – la nota prevede un rischio di «destabilizzazione a lungo termine» degli Stati provocata dalla pandemia –, Yann Gwet sul settimanale Jeune Afrique riconosce che in effetti «Stati già fragili corrono un elevato rischio di crollare». Ma preferisce sottolineare tre punti che fanno intravedere «un risollevarsi del continente».
Il primo fattore è una finestra di opportunità: siamo davanti a «uno sconvolgimento dell’ordine mondiale così profondo da rimettere in discussione, e in un senso meno sfavorevole all’Africa, l’equilibrio dei poteri a livello internazionale»; il secondo è «il declino delle potenze occidentali», che comporterà «lo smantellamento di una civiltà occidentale che invecchia, indolente e inefficace» (e qui il suo accento va sulla Francia, che per gli africani francofoni continua a essere comunque un punto di riferimento). L’ultimo fattore è invece endogeno: è «il concomitante emergere di una generazione di leader capaci».
Per contrasto, Gwet non poteva non pensare alla Cina, che, visto il modo in cui ha «voltato la pagina del coronavirus», con un eccezionale rimbalzo dell’attività industriale registrato nel mese di marzo, si candida a «ritrovarsi nella posizione degli Stati Uniti alla fine della Seconda guerra mondiale».
È l’ora di un’economia di prossimità
Un altro intellettuale molto ascoltato negli ultimi tempi è Kako Nubukpo (foto), preside della facoltà di Economia all’Università di Lomé, venuto alla ribalta per le sue argomentate posizioni sul franco Cfa. Di lui leggeremo a breve, in Italia (sulla rivista Vita e Pensiero), una conversazione con Thomas Piketty.
Su Le Monde di sabato scorso, Nubukpo rilevava come «i pilastri paradigmatici della globalizzazione, ossia il neoliberismo erede della dottrina classica del laissez faire, laissez passer, si trovino ora messi in discussione», a cominciare dalla chiusura drastica delle frontiere aeroportuali (… anche se non accade lo stesso per quelle marittime, per le quali passano il 90% degli scambi a livello mondiale). «E c’è da scommettere che, quanto alla circolazione delle persone, le frontiere non riapriranno tanto presto, in un contesto di accresciuta paura, in Occidente, delle ondate migratorie dall’Africa».
L’economista togolese vede nero, a corto termine. Ma anche lui prospetta tre punti per uscire dalla crisi rinforzati. In primo luogo, valutando «il doppio shock dell’offerta e della domanda» come conseguenza più tangibile del Covid-19 (oltre a quella sanitaria), mette in guardia dal privilegiare le misure di rafforzamento della domanda, che avrebbero l’effetto di provocare una fiammata dei prezzi. Quindi, adottare politiche economiche che accrescano strutturalmente «l’offerta di beni e servizi di prima necessità, al posto delle politiche malthusiane dell’Fmi e della Banca Mondiale» nel quadro degli aggiustamenti strutturali.
In terzo luogo – e non è una questione nuova, ma forse la crisi fa ora capire quanto sia importante e urgente –, «costruire un modello endogeno di sviluppo, fondato sulla promozione di un’economia di prossimità». È l’economia a filiera corta, e sobria quanto al carbonio, quella che si rivela più adatta alle misure di isolamento della popolazione, e più in generale a contrastare il cambiamento climatico. «L’economia africana – conclude Kako Nubukpo – ha sempre dato prova di un genio che le permette di conciliare armoniosamente il suo sistema produttivo di autoconsumo interno e il commercio a grande distanza, come ha ben dimostrato l’economista Karl Polanyi».
(Pier Maria Mazzola)