Dalla nota precedente è passata una settimana. Settimana in cui la diffusione del coronavirus è stata molto contenuta, e settimana di impegni per Koinonia.
Ad oggi, oltre un mese dopo i primi contagi, i casi di malati di coronavirus sono intorno ai 208, i morti 9. Il successo di questo contenimento è probabilmente dovuto alle misure drastiche che sono state adottate immediatamente dopo i primi contagi: chiusura delle scuole, chiusura dei confini, quarantena per tutti coloro che hanno dato segni di malattia, rapida identificazione di tutti i contatti dei malati, chiusura di bar e ristoranti, social distancing, coprifuoco dalle 19 alle 5. L’impatto sull’economia è stato devastante, ma dal punto di vista sanitario i risultati sono eccellenti. Finora. Perché non mancano gli studi che prevedono si possa arrivare ad avere fra 800.000 e due milioni di morti, come quello di Amref Health Africa (notizia poi smentita dalla stessa organizzazione sanitaria*).
Koinonia è in continuo contatto con i servizi sociali governativi, che si trovano ad affrontare situazioni difficili. Mercoledì scorso siamo stati richiesti di intervenire con nostri operatori di strada per aiutare e convincere le varie piccole bande di ragazzi rimasti nel centro città ad essere ospitati in strutture messe a disposizione da diverse organizzazioni. Non è stato facile, e poi nelle strutture i ragazzi non sono stati sempre accolti da personale preparato. Questi sono ragazzi che se sono trattati come in un riformatorio, se si sentono solo gridare ordini, si ribellano. Bisogna coinvolgerli, che siano responsabili veri nel gestirsi e gestire il loro gruppo.
Sono state giornate di tensione, durante le quali ci venivano continuamente richiesti nuovi interventi, non solo in strada ma anche nelle strutture dove erano stati inseriti i ragazzi. Mi è anche capitato di ricevere una telefonata con la richiesta di intervenire e dare ospitalità a duecento ragazzi. Duecento?! Come fare? Accoglierli male, in case senza spazi adeguati, magari mettendoli insieme a ragazzi che hanno già fatto un cammino di cambiamento, sarebbe stato un disastro. Abbiamo studiato altri interventi, chiesto aiuto. Il Venerdì Santo è stato veramente un venerdì di passione. Mi è sfuggita una frase infelice, alla quale Bernard ha commentato: «Togliere questi ragazzi dalla strada è un gesto di pietà come schiodare Gesù dalla croce. È la chiamata di Koinonia». Zittito. Non mi sono più lamentato.
I momenti con i ragazzi sono stati sempre intensi. Giovedì abbiamo celebrato la Cena del Signore nel tardo pomeriggio, nella chiesetta di Tone la Maji, tutti a distanza regolamentare. Per la lavanda dei piedi abbiamo seguito l’ordine di Gesù di lavarsi i piedi l’un con l’altro. Così abbiamo preparato un grande catino, ma proprio grande, pieno di acqua con sapone e disinfettante, con due stracci imbevuti di disinfettante per spostarlo. I ragazzi seduti in un grande cerchio e come d’abitudine a piedi nudi o con gli infradito. Ho spiegato bene come fare, e soprattutto il senso di quello che stavamo facendo, poi ho preso il catino e l’ho messo davanti a Kevin, 4 anni e un braccio ingessato, il primo alla mia sinistra, il quale ci ha immerso i piedi, se li è frizionati un po’, e ha passato il catino alla sua sinistra, Di asciugarli non c’era bisogno. L’ultimo alla mia destra era Alex, 16 anni, sempre timido e brusco, il più “anziano”, a parte gli operatori. Parla sempre poco, ma capisce bene il linguaggio dei segni. Quando il catino è arrivato a lui, dopo esseri lavato, ha voluto a tutti costi prendere i miei piedi e immergerli e lavarli con le sue mani. Alle fine, mentre uscivamo cercando di non scivolare sulla patina d’acqua e sapone rimasta sul pavimento, si è avvicinato e mi ha abbracciato. Senza parole. Potevo rifiutare, in nome del coronavirus?
A Kerarapon, la mattina di Pasqua dopo la messa, ci sediamo all’aperto. Come di regola Jack organizza un giro di autopresentazione, che spesso diventano momenti di verità. Ognuno dice il suo nome, e qualcosa di sé stesso, cosa vorrebbe fare in futuro. Cerco di imprimermi nella memoria volti e nomi, sono importanti, è importante. Poi uno dei piccoli – una decina d’anni, ho postato la sua foto di spalle, mentre sniffava colla – sconvolge la procedura perché dice determinato: «Io mi chiamo John, e domani mattina voglio tornare da mia mamma». Scoppia un applauso. Io approvo, ma gli spiego che sua mamma vive fuori da Nairobi e dobbiamo aspettare che venga rimosso il divieto di lasciare la città. Ma così intanto lui avrà tempo di mangiare bene, giocare, fare sport e sua mamma sarà ancora più felice di vederlo tornare forte e cresciuto. John resta ad ascoltare attentissimo, ma due altri della sua età nascondono il viso fra le mani e si mettono a piangere. «Anch’io voglio tornare dalla mamma». Una settimana fa sembravano una banda di delinquenti scafati, oggi sono bambini che vogliono la mamma. Per superare il momento di crisi devo chiamare d’urgenza Harrison per distribuire tè e biscotti, il nostro pranzo di Pasqua.
Senza togliere il merito del contenimento all’immediato intervento del governo, credo comunque che la scarsa presa che il coronavirus sembra avere in Kenya dipenda anche dal fatto che questi ragazzi da piccoli hanno superato ogni genere di infezione, malarie, tubercolosi, nati da una generazione sopravvissuta all’aids, probabilmente hanno un sistema immunitario molto ben allenato ad affrontare le malattie. E speriamo che gli scienziati di Amref si sbaglino.
Perché, a dirla tutta, alla fin fine i decreti governativi non sono proprio rispettati alla lettera. In due video di pochi secondi che ho ripreso dalla finestra di Kivuli si può vedere come ieri sera alle 18 era la Kabiria Road (social distance? mascherine?) e poi come era 10 minuti dopo l’inizio del coprifuoco.
(*)
Nella giornata di ieri, martedì 14 aprile, Amref Health Africa ha smentito ufficalmente, per mano del suo direttore Dr Githinji Gitahi, le previsioni comunicate alla stampa dal Prof Joachim Osur, collaboratore dell’organizzazione medica, che parlavano di più di 800 mila kenyani a rischio di morte per Covid-19.
Padre Renato Kizito Sesana è un missionario che vive tra Nairobi (Kenya) e Lusaka (Zambia), città dove ha avviato case di accoglienza per bambini e bambine di strada (si chiamano Kivuli, Tone la Maji, Mthunzi…) e molte altre iniziative principalmente rivolte ai giovani, rendendoli protagonisti (come la comunità Koinonia). È cofondatore della onlus Amani, che dall’Italia sostiene la sua opera. Da giornalista, ha sempre avuto una viva attenzione alla comunicazione, dapprima come direttore di Nigrizia, quindi fondando a Nairobi la rivista New People e rendendosi presente sui mezzi di comunicazione keniani e internazionali.