La presenza della Russia in Libia è più pericolosa della minaccia rappresentata dall’Isis. L’accusa, forte e circostanziata, arriva da un ufficiale della Marina dell’Africom (il comando africano degli Stati Uniti), Christina Gibson, che aggiunge: «L’Africom ha notato la crescente presenza di mercenari russi: si sta offrendo a Mosca la flessibilità necessaria per conseguire i suoi obiettivi geopolitici ed economici». Vera o non vera, questa accusa dimostra che lo scontro tra gli Stati Uniti e la Russia in Africa non solo prosegue, ma si inasprisce. E non è uno scontro solo fatto di parole più o meno sensate. Gli Usa, inoltre, hanno ritirato le loro truppe dalla Libia nell’aprile del 2019 e il vuoto è stato subito riempito dalla Russia e dalla Turchia: la prima appoggia Haftar, la seconda il Governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli. Ad aggravare ulteriormente la situazione sul campo, la decisione del comandante Khalifa Haftar di «accettare il mandato popolare»: in sostanza un colpo di Stato con l’intenzione di espugnare Tripoli dopo gli insuccessi militari. Ci riuscirà o meno non lo possiamo sapere. Ma non è casuale che le accuse di Washington siano arrivate all’indomani della decisione dell’uomo forte della Cirenaica. Un funzionario della Difesa Usa, infatti, sostiene che la Russia sta scommettendo «sul fatto che se scopriranno di aver puntato sulla fazione vincente otterranno l’accesso ad accordi redditizi sull’estrazione mineraria e ai porti, oltre ad avere un’influenza sul futuro governo libico». Ma il gioco di Mosca non è poi così chiaro, perché il profilo rimane basso.
Gli scarponi sul terreno non li hanno messi i militari russi ma i mercenari del gruppo Wagner: uno stratagemma per poter smentire la propria presenza di fronte alle Nazioni Unite. Il profilo è basso perché così, se le cose non dovessero andare come sperato da Mosca, il Cremlino potrà negare ogni suo coinvolgimento. Non a caso il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha subito dichiarato che il suo Paese non approva le dichiarazioni del generale Haftar ma nemmeno quelle di Sarraj, Presidente del Governo riconosciuto a livello internazionale, che rifiuta negoziati con il comandante dell’Esercito nazionale libico e chiede al Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres di nominare un inviato speciale il prima possibile. Un colpo al cerchio e una alla botte. L’esasperazione dello scontro tra Stati Uniti e Russia in Libia non è altro che l’ultimo di una serie che sta coinvolgendo tutta l’Africa, anche se la Guerra Fredda è un lontano ricordo. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente. La Russia non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E ciò allarma le cancellerie occidentali.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun, anche se gli Usa continuano a sostenere di voler alleggerire la propria presenza nel Sahel, privilegiando l’intervento in funzione anti-terrorismo in Somalia, dove hanno incrementato i raid contro le postazioni di al-Shabaab. La Russia, a differenza della Cina, non può offrire prodotti di consumo e non può competere dal punto di vista commerciale con gli Stati Uniti, ma con le armi sì. Il grosso del mercato africano delle armi, infatti, già da tempo è sotto i riflettori di Mosca. In dieci anni, dal 2007 al 2017, sono state vendute armi russe in 15 Nazioni per un ammontare di 21 miliardi di dollari, che fanno essere Mosca il più grande esportatore di armi in Africa dopo gli Stati Uniti. Mosca ha firmato accordi di cooperazione in materia di sicurezza con 24 Paesi africani e fornisce armi, hardware militare e addestramento. Il portafoglio di ordini di armi russe dall’Africa è in costante crescita. Il capo del Servizio federale russo per la cooperazione tecnico-militare (Fsmtc), Dimitri Shugayev, ha spiegato che si «tratta di cifre significative, specialmente perché il trend è in crescita negli ultimi cinque anni». Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato un appello a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo. Tutto ciò piace molto al Cremlino, ma fa perdere posizioni strategiche all’Occidente. L’opzione di Mosca, dunque, è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso. Il Cremlino è consapevole della sua marginalità sui mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese: il mercato militare è però una leva che la Russia sta usando ad arte. Mosca, attraverso questa inedita alleanza militare, mira a rafforzare gli accordi in tema di nucleare e a espandere quelli sull’estrazione dei metalli pregiati usati per la produzione di tecnologia avanzata e di precisione. In Namibia la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio, e non è nemmeno da trascurare la presenza in Angola nel settore diamantifero.
É evidente, dunque, che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, allo sfruttamento delle materie prime. Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana emerso dal forum Russia-Africa è tutto teso a rafforzare i legami diplomatici e ad accrescere la presenza economica nel continente. La retorica di Putin definisce l’agenda per l’Africa «positiva», non interessata a depredare la ricchezza del continente, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola , questa, già usata, e in abbondanza, da coloro che hanno colonizzato il continente. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. E l’Africa, ancora una volta, sarà costretta a finanziare il prossimo assetto geopolitico del pianeta.
(Angelo Ravasi)