(reportage dal numero 6/2019 di Africa)
Migliaia di vittime e sfollati, decine di villaggi devastati. É il bilancio degli ultimi anni di scontri armati nella “Middle Belt”, regione nigeriana che fa da cerniera tra il Nord musulmano e il Sud cristiano. Ma la religione non c’entra…
«Muovetevi, in fretta!». I pastori urlano e si fanno strada tra la folla mentre una colonna di vacche dalle lunghe corna avanza nella polvere turbinante. Migliaia di bestie calpestano il terreno cosparso di sacchetti di plastica. È metà mattina, ma il caldo è già rovente. I clienti sono arrivati e le contrattazioni sono iniziate.
Boom demografico
Siamo al mercato di Agege a Lagos, il più importante snodo commerciale del bestiame nell’Africa occidentale. Qui, ogni giorno, arrivano cinquanta camion carichi di animali da macello: sono destinati a sfamare i 20 milioni di abitanti della più grande città d’Africa. La Nigeria ha più di 200 milioni di bocche da sfamare, una cifra che raddoppierà entro il 2050. Parallelamente al boom demografico aumenta la richiesta di carne e latte. Ma la crescente domanda interna di consumi provoca inevitabilmente scompensi e tensioni nella più popolosa nazione del continente.
Agege è l’ultima tappa del viaggio degli animali. Sono stati allevati a centinaia di chilometri di distanza dai Fulani, Peul nei Paesi francofoni, pastori seminomadi presenti soprattutto nel Nord del Paese, poi sono stati venduti nei mercati rurali e infine portati a Lagos. Alcuni bovini, stremati dal viaggio e indeboliti dalle malattie, collassano all’arrivo. Stesi sui fianchi, ansimanti, con le costole sporgenti, muoiono tra i lamenti. Ma la maggior parte di loro, ingrassata di cereali e foraggio, con il pelo lucido, mostra di essere “in carne”.
Carne insufficiente
A pochi passi si trovano i giganteschi mattatoi della città. In un parcheggio sporco, i furgoni refrigerati sono già pronti per il carico. Aisha Maila è una delle poche donne che si aggira nel caos del mercato. L’anziana signora sta per sposare sua figlia e vuole che il matrimonio sia celebrato con un ricco banchetto nuziale: è venuta ad Agege per contrattare il prezzo della carne direttamente alla fonte. «Quel grosso toro costa una follia, mi accontenterò di una vacca più modesta», bofonchia un po’ delusa.
I veri affari vengono siglati tra gli intermediari e i proprietari dei macelli. Gambo Usman ha trovato un potenziale acquirente, un ricco uomo d’affari, per delle mucche che sono arrivate dal vicino Ciad. «La domanda di capi di bestiame sta aumentando a dismisura e talvolta non ci sono bestie a sufficienza per soddisfare le richieste del mercato», spiega Usman, jeans strappati e stivali infangati. «Il problema è che su al Nord si stanno massacrando. Pastori contro contadini. Molte mandrie sono state decimate dalle violenze. Siamo costretti a importare animali da Niger, Ciad e Camerun».
Alta tensione
Nelle aride terre del Sahel, l’allevamento viene praticato dai Fulani, un popolo prevalentemente musulmano con una lunga tradizione di nomadismo. Ogni anno a novembre, quando inizia la stagione secca, i pastori coi loro animali si spostano verso sud alla ricerca di pascoli freschi, dove i fiumi Niger e Benue innaffiano le fertili pianure della Nigeria centrale. Una volta la ”Middle Belt”, regione che fa da cerniera tra il Nord dominato dai musulmani e il Sud in buona parte cristiano, era un territorio di incontri e commerci proficui per tutti: il latte veniva scambiato contro il grano, il fieno rimasto dai raccolti alimentava il bestiame e lo sterco delle mucche fertilizzava il terreno.
Le tensioni potevano sorgere specialmente quando un branco mangiava o calpestava il campo di colture di un contadino – ma i capi tradizionali avevano ancora il potere di mantenere la pace e la coesione tra le diverse comunità. Oggi non è più così. Nel Nord, i periodi di siccità sono sempre più ricorrenti e le incursioni di Boko Haram hanno costretto decine di migliaia di persone ad abbandonare i propri villaggi. I Fulani si spingono verso sud, in cerca di pascoli e di sicurezza. Ma terra e acqua non bastano. Così le tensioni coi contadini sfociano sovente in sanguinosi conflitti. Nel villaggio di Angwan Aku, nell’ultimo anno, sono state trucidate oltre cento persone. Erano cristiani appartenenti al popolo Adara. Oggi sul terreno restano abitazioni devastate e date alle fiamme.
L’inferno all’improvviso
Monica Gabriel, 48 anni, era nel villaggio quando è avvenuta l’ultima carneficina. È stata gravemente ferita da diversi colpi di machete mentre tentava di scappare. Ora è sdraiata su un vecchio materasso sul pavimento di una clinica. Sotto shock, ha lo sguardo fisso al soffitto, non parla. Le pallottole che le hanno spezzato le gambe sono ancora conficcate negli arti e chissà se saranno mai estratte. Il cranio è attraversato da una lunga cicatrice. Una fasciatura nasconde il braccio sinistro maciullato dagli assalitori. Due infermiere sventolano le mosche che vengono a banchettare sulle ferite. È agonizzante. Non fosse per i colpi di tosse che le fanno sussultare il petto, si potrebbe pensare che sia già morta.
Il marito, accanto al letto, parla con un filo di voce. E racconta l’inferno. «Era l’alba e Monica stava cucinando il porridge di miglio per colazione quando abbiamo sentito un crepitio di fucili automatici. Io mi sono salvato per miracolo perché mi ero allontano da casa e ho avuto modo di nascondermi. Mia madre è stata uccisa sulla soglia di casa, Monica ha cercato di scappare, ma l’hanno presa». Da allora l’uomo se ne sta al capezzale della moglie. «Non sappiamo perché ci hanno attaccato – si sfoga –. Non abbiamo fatto niente di male». Gli armati andavano di casa in casa, sparando o colpendo a morte chiunque incontrassero: uomini e donne, vecchi e bambini. In meno di due ore hanno fatto a pezzi 27 innocenti. Altri 16 sono stati feriti gravemente.
Fronte di guerra
I sopravvissuti sostengono che gli assalitori erano «Fulani». «Parlavano la lingua dei Fulani e avevano i loro tipici tratti fisici: pelle più chiara e zigomi alti». Difficile trovare conferme. La zona pullula di banditi e razziatori. L’unica certezza è che le regioni centrali della Nigeria sono sconvolte da una terribile spirale di violenza, alimentata dalla contesa sempre più serrata per le risorse. Negli ultimi cinque anni, il conflitto ha causato almeno settemila vittime e il suo costo economico è stato di 13 miliardi di dollari l’anno, secondo l’ong Mercy Corps. I contadini, principalmente cristiani ma appartenenti a diversi gruppi etnici, vantano legami ancestrali con queste terre. Pretendono di averne l’uso eslusivo. Sono appoggiati dal governo che sta investendo importanti risorse nello sviluppo dell’agricoltura (per diversificare l’economia nigeriana, troppo dipendente dal petrolio). Ma le violenze sempre più acute con gli allevatori stanno trasformando la “Middle Belt” in un desolato campo di battaglia dove s’incontrano decine di villaggi adara bruciati e accampamenti fulani saccheggiati e abbandonati. Colonne di fumo si alzano sulla savana. Le fiamme hanno inghiottito le abitazioni. Pile di lamiere ondulate sono tutto ciò che rimane dei tetti crollati. I morti vengono seppelliti in fosse comuni scavate frettolosamente dai sopravvisuti prima che gli sciacalli possano strapparne i resti.
Sete di vendetta
Nel villaggio di Dogon Noma, dove l’anno scorso, a marzo, 71 persone sono state uccise e circa 250 case bruciate, ogni fossa è stata scavata per contenere 10 corpi. Alla fine non c’era più spazio per seppellire tutti. Ogni attacco genera odio, sete di vendetta. Le autorità paiono inerte, incapaci di prevenire e di punire. Sangue chiama altro sangue.
È domenica. Dal pulpito di una chiesa evangelica il predicatore Yohanna Buru esorta i fedeli a spezzare la catena delle violenze: «Riponiamo la fiducia nel Signore, non cerchiamo vendetta, anzi preghiamo per i carnefici e la salvezza delle loro anime». Tra le panche dei fedeli si odono mormorii di disapprovazione. Il predicatore insiste: «I Fulani non sono terroristi. Cristiani e musulmani devono convivere in pace. L’unica via d’uscita è il dialogo».
La sua voce è diventata famosa in questa regione, viene trasmessa ogni domenica nel suo programma radiofonico locale. «Sono un pacificatore – dice Buru –. Ma so bene che le mie prediche non piacciono a tutti. Ho ricevuto minacce, intimidazioni… Mi si rimprovera di parlare coi nemici dei cristiani. Ma quella a cui stiamo assistendo non è una guerra di religione. È una guerra per la terra. Combattuta da poveri che hanno pochissimo da perdere». Oyama Kwanaki ha già perso tutto. La famiglia, la casa, la fede. Sdraiato su un letto d’ospedale, con una ferita da proiettile, ha occhi che lampeggiano di rabbia: «Non dimenticherò mai quello che i Fulani mi hanno fatto. E se mai ne incontrerò uno sulla mia strada, non avrò pietà».
Emergenza umanitaria
Nei villaggi i giovani si organizzano in gruppi di autodifesa. Sono armati di vecchi fucili, lance, archi e frecce. Contro i kalashnikov degli aggressori. Ma a volte i ruoli si invertono, e a compiere raid sanguinari sono i cristiani. Lo scorso febbraio, in una sola notte, nello Stato di Kaduna sono stati massacrati 130 pastori fulani. Per ritorsione. Oggi i pastori cercano rifugio e protezione nei dintorni di Kachia, dove sono accampati ventimila sfollati.
«La situazione sanitaria è esplosiva», fa presente Idriss Jamo, l’unico medico in circolazione. Viene da Kaduna e si è trasferito qui per portare soccorso alla popolazione abbandonata dallo Stato. Nella sua clinica scarseggiano attrezzature e farmaci. «Cerco di arrangiarmi. Avrei potuto restare in città. Ma qui la gente muore di malaria, dissenteria, infezioni banali, e le donne incinte perdono il loro bambino prima di raggiungere l’ospedale».
Isa Ibrahim, trent’anni, è un Fulani. Vive di pastorizia. Ma in questo periodo fa il tassista in sella a una moto che prende a noleggio. Trasporta la gente in fuga dai villaggi. «Un tempo la nostra vita ruotava attorno alle mandrie, ci si spostava in continuazione alla ricerca di nuovi pascoli, e l’importanza di un uomo si misurava dal numero di vacche che possedeva. Oggi tutto è cambiato. I pascoli sono diventati campi di battaglia e la gente ha smesso di muoversi perché è terrorizzata dagli agguati delle altre popolazioni. È una guerra fratricida, tutti contro tutti. Cristiani contro musulmani, Fulani contro Atyap, Fulani contro Ninzom, Fulani contro Kaninkom… I villaggi bruciano uno dopo l’altro. Le poche vecche rimaste non bastano per sopravvivere. Non danno latte a sufficienza per sfamare tutta la famiglia».
Futuro nero
I terreni per il pascolo, sempre più ridotti dalla siccità e dall’aumento della popolazione, sono contesi ai contadini. Con le armi. «Viviamo segregati in spazi sempre più angusti, relegati ai margini della società. Zero servizi, zero attenzioni da parte delle autorità». Tre milioni di bambini fulani non vanno a scuola. I più fortunati sono costretti a studiare in aule sovraffolatte, senza banchi, panchine o quaderni.
Yusuf Abubakar ha 16 anni, ma frequenta la seconda elementare. Stenta a parlare correntemente l’inglese. Eppure sogna di diventare governatore: «Voglio fare ciò che gli altri non hanno fatto… Portare pace alle persone, costruire scuole e ospedali». Nella regione di Kachia, sono disoccupati nove giovani su dieci. «Senza istruzione, senza qualifica, senza pascoli né alternative, non c’è prospettiva. Se non la violenza e la razzia», dice Shitu Abdullahi, insegnante.
Nel tormentato Stato di Zamfara, furti di bestiame su larga scala e rapimenti per riscatto sono diventati la norma. «Chi subisce furti e attacchi spesso decide di imbracciare le armi e cerca di rifarsi. Un kalashnikov costa 100 dollari. I proiettili al mercato vengono via per una manciata di soldi. Tanto vale la vita in questa regione perduta della Nigeria». È una spietata guerra di sopravvivenza. E non se ne vede la fine.
(testo di Célia Lebur – foto di Luis Tato/Afp)