Si discute molto nel mondo sul significato della storia e dei simboli che sono sparsi in tutte le nostre città in seguito alle proteste scoppiate negli Stati Uniti per l’uccisione di George Floyd. Negli USA sono soprattutto i simboli della conquista europea del Nuovo Mondo, come le statue di Cristoforo Colombo, a essere prese maggiormente di mira, ma le proteste sono arrivate anche in Europa. E, non poteva essere altrimenti, sono finiti nel tritacarne simboli della colonizzazione in Africa: a Bruxelles si discute sulla rimozione della statua di re Leopoldo II, a Bristol la statua del mercante di schiavi Edward Colston è stata gettata nel fiume, a Milano è stata imbrattata la statua di Indro Montanelli.
Alcuni avvenimenti terribili della nostra storia più o meno recente non si cancellano abbattendo questa o quella statua: piuttosto sarebbe bene interrogarsi sui motivi per cui si è deciso nei secoli di tributare onori a personaggi o avvenimenti oscuri della storia. Come ad esempio a Roma dove, in via dell’Amba Arabam, sorge una fermata della linea C della metropolitana, e dove alcuni attivisti hanno sostituito il cartello della via con un altro con scritto “via George Floyd e Bilal Ben Messaud”, quest’ultimo un migrante morto a Porto Empedocle il 20 maggio scorso mentre tentava di raggiungere la Sicilia. Via dell’Amba Aradam è stata chiamata così per commemorare una delle più cruente battaglie della guerra coloniale d’Etiopia, avvenuta nel 1936, una di quelle battaglie in cui l’esercito italiano guidato dal generale Pietro Badoglio non ha esitato a lanciare dagli aerei bombe a gas per asfissiare l’esercito etiope di ras Mulugeta Yeggazu che in rotta già stava battendo la ritirata, sconfitto. Le fonti non sono concordi nello stimare le vittime, ma se da parte italiana i morti furono circa ottocento, si stima che le perdite per gli etiopi furono nell’ordine delle ventimila. Nei giorni scorsi è emersa una interessante proposta avanzata dal giornalista Massimiliano Coccia e sposata, tra gli altri, dallo scrittore Roberto Saviano: intitolare la fermata di via dell’Amba Aradam a Giorgio Marincola, il “partigiano nero”.
Come già raccontato sul sito di Africa Rivista in occasione del 25 aprile, non sono pochi i casi di partigiani con la pelle nera che hanno fatto parte della Resistenza combattendo contro i nazifascisti un po’ in tutta Italia. Giorgio Marincola è stato uno di questi, e la sua storia è strettamente legata a quella di Roma e della sua liberazione avvenuta nel giugno del 1944. Nato in Somalia da padre italiano e madre somala nel 1923, Giorgio si trasferì giovanissimo in Italia: per un breve periodo fu ospitato in Calabria dagli zii, per raggiungere ben presto il padre e la sorella Isabella a Roma dove frequentò il regio liceo Umberto I. Una volta diplomato decise di iscriversi a medicina: il suo sogno era quello di specializzarsi in malattie tropicali per poi trasferirsi a lavorare nel suo Paese d’origine. Tuttavia, con l’occupazione nazista di Roma, tutti i suoi sogni vennero infranti: decise dunque di entrare nelle brigate partigiane romane legate al Partito D’Azione, partito al
quale si era avvicinato grazie al suo professore di liceo Pilo Albertelli che sarà una delle vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Dopo la liberazione di Roma, Giorgio decise di continuare la lotta, e si arruolò nella Special Force degli alleati con la quale venne paracadutato a Biella dove compì diverse azioni di sabotaggio. Il 17 gennaio del 1945 venne catturato dai tedeschi e incarcerato a Villa Schneider, sempre a Biella, dove diede prova ancora una volta di immenso coraggio. Costretto a leggere in radio un proclama contro la Resistenza, pronunciò queste parole, prima di essere interrotto e picchiato brutalmente: «Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica. La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i
popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori». Deportato verso la Germania, venne liberato mentre era nel campo di Gries (BZ), decise ancora una volta di proseguire. Girava la voce che nelle valli trentine ancora i tedeschi mettessero in atto azioni di rappresaglia durante la loro fuga, e dunque Giorgio non esitò a recarsi in Val di Fiemme per combattere ancora. Fu qui che fu ucciso, in quella che viene ricordata come l’ultima strage nazista in Italia, a Stramentizzo, un piccolo centro abitato nei pressi di Cavalese (TN). Per approfondire la sua storia, rimandiamo al libro Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923-1945), di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio.
(Giovanni Pigatto)