Silvia Romano: «Il mio velo, simbolo di libertà»

di AFRICA

«Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima». Silvia Aisha Romano, la volontaria rapita in Kenya il 20 novembre 2018 in Kenya nel villaggio di Chakama dove operava e liberata in Somalia il 9 maggio 2020, dopo 18 mesi di prigionia, racconta per la prima volta la sua conversione in un’intervista a Davide Piccardo, coordinatore del Caim, il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, sul sito La Luce da lui diretto.  Uno dei temi affrontati è proprio la declinazione della libertà nella religione musulmana.  «Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le proprie forme – ha spiegato – nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo».  La giovane, oggetto di violenti attacchi sui social per la sua scelta di abbracciare l’Islam,  ha ammesso: «Quando vedevo le donne col velo in via Padova (la strada multietnica vicina alla casa in cui vive, ndr) avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo (…). Io non avevo paura del diverso e nemmeno ostilità, ma quel pregiudizio negativo c’era. Sicuramente, pur pensando certe cose non le avrei mai dette per evitare di ferire gli altri, ma sì, il pregiudizio lo avevo; per quello posso capire chi oggi, non conoscendo l’Islam, pensa queste cose. All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere”.

Nell’intervista, Silvia Romano ha spiegato che quando arrivò nella prigione a lei destinata dai carcerieri in Somalia pensò che forse Dio l’aveva punita.  «Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla». Quelle domande non la facevano sentire meglio, anzi: «Più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia. Non avevo la risposta ma sapevo che c’era e ci dovevo arrivare. Capivo che c’era qualcosa di potente ma non l’avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno lassù lo aveva deciso. Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito.  Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui. A gennaio, quando ero in Somalia nella stanza di una prigione da pochi giorni…era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia. Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui». Un momento cruciale per la sua conversione ma, forse, anche quello in cui ha capito di essere in mano ai terroristi di Al Shabaab, un gruppo sanguinario, tra i più feroci dell’Africa, forse ancora di più di Boko Haram in Nigeria. La sua fede, precisa la ragazza, «si è sviluppata con il tempo. Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima».

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