«Il gioco rischioso di Uhuru» (Uhuru’s risky gamble), titolava il giornale più importante del Kenya lo scorso martedì, riportando la decisione annunciata dal presidente Uhuru Kenyatta in conferenza stampa la sera precedente di riaprire confini interni ed esterni, pur mantenendo il coprifuoco dalle 21 alle 4. Dallo stesso giorno ci si può muovere liberamente su tutto il territorio del Kenya, dal 15 luglio riprenderanno i voli interni, e dal primo agosto i voli internazionali. Doccia fredda il pomeriggio del martedì, quando il ministro dell’Educazione ha annunciato che se la situazione non peggiora le università e gli istituti di istruzione superiore (come il nostro Diakonia Institute) possono riaprire a settembre, ma le scuole primarie e secondarie (come la nostra Domus Mariae) rimarranno chiuse certamente fino a fine dicembre. Potranno riaprire a gennaio, che è la solita data di apertura dell’anno scolastico. Gli studenti dovranno re-iscriversi nella stessa classe in cui erano a gennaio 2019. Un anno completamente perso per tutti gli studenti del Kenya. Col rischio che molti studenti di famiglie povere in questi lunghissimi mesi si perdano.
La decisione del governo sembra cercare un equilibrio tra i catastrofisti che persistono a prevedere centinaia o migliaia di morti per le strade in agosto e settembre, e chi vuole far ripartire l’agonizzante economia. Di fatto le statistiche di oggi ci dicono che ci sono stati dall’inizio di marzo 8.973 casi di covid-19 confermati, 2.657 guariti e 173 morti. Il numero dei morti è ancora inferiore a quello degli annegati durante le alluvioni di febbraio-marzo. Cresce invece il numero di persone, moltissimi giovani, che prima dell’epidemia avevano magari un lavoro decente, e adesso sono letteralmente alla fame. A Koinonia, in particolare a me, pervengono quotidianamente richieste di persone che chiedono solo farina per la polenta. Anche maestre di scuole elementari, gestori di bancarelle, laureati in informatica.
I nostri bambini e ragazzi sono tutto sommato tra i fortunati. Le bambine della Casa di Anita nel periodo di isolamento sono diventate una specie di felice repubblica indipendente, i ragazzi di Tone la Maji studiano al mattino e giocano a calcio il pomeriggio, i grandi che sono a Kerarapon seguono i vari corsi che abbiamo organizzato per loro, catering, saldatori, falegnami. Ristabiliscono i legami con la famiglia attraverso il telefono che abbiamo messo a disposizione. Ieri R***, diciassettenne e magro come un omena, i pesciolini essiccati che si mangiano con la polenta, mi tira in disparte e mi mostra uno spiegazzato biglietto da cento scellini (un po’ meno di un euro) e, usando tutti i trucchetti per intenerire che ha imparato in strada, mi dice: «Guarda cosa sono riuscito a conservare dalle elemosine che raccoglievo in strada. Vorrei mandarlo a mia mamma con Mpesa [il sistema telefonico per trasferimento di denaro]. L’ho chiamata e mi ha detto che ha fame, ma se tu me lo raddoppi sarà più contenta…».
Per alcuni maggiorenni abbiamo fatto un contratto con una scuola guida perché possano avere la patente auto. Solo due o tre sembrano non fare progressi, ed uno ha dato segnali di squilibrio mentale, costringendoci a ricoverarlo in un ospedale psichiatrico, da dove è tornato ieri in condizioni che sembrano stabili. Per molti di loro il problema di base è l’autostima. Non hanno la percezione di essere vittime. Piuttosto si sentono colpevoli. Colpevoli di essere scappati da una casa dove magari erano abusati, colpevoli per non essere mai andati a scuola, colpevoli per aver fatto piccoli furti per mangiare. Hanno interiorizzato il disprezzo che “la società” ha per loro. È una vecchia storia. Scriveva Frantz Fanon un secolo fa che la cultura dominante (nel suo caso in Francia) fa sì che i dominati interiorizzino il disprezzo che il dominatore ha per loro. Il caso di questi ragazzi è lo stesso, si sentono inadeguati ad essere parte di una società che per anni li ha scartati e dimenticati. Bisogna camminare al loro fianco perché possano riscoprire la loro dignità e il loro valore.
Padre Renato Kizito Sesana è un missionario che vive tra Nairobi (Kenya) e Lusaka (Zambia), città dove ha avviato case di accoglienza per bambini e bambine di strada (si chiamano Kivuli, Tone la Maji, Mthunzi…) e molte altre iniziative principalmente rivolte ai giovani, rendendoli protagonisti (come la comunità Koinonia). È cofondatore della onlus Amani, che dall’Italia sostiene la sua opera. Da giornalista, ha sempre avuto una viva attenzione alla comunicazione, dapprima come direttore di Nigrizia, quindi fondando a Nairobi la rivista New People e rendendosi presente sui mezzi di comunicazione keniani e internazionali.
Foto: The Alliance of Religions and Conservation