Gian Butturini (1935- 2006) è stato un grande fotogiornalista italiano. Ha dedicato la vita alla fotografia sociale e si è sempre brechtianamente seduto dalla parte del torto. Riassumere la sua lunga carriera in poche righe è impossibile.
Qui ci limitiamo a ricordare il lungo lavoro di documentazione sui manicomi, che ha contribuito non poco alla chiusura di queste strutture, il racconto della strage di Bologna del 2 agosto e degli scioperi dei minatori inglesi contro la Tatcher, i reportage da Cuba e dal Chiapas e, per restare in Africa, quelli sulla resistenza dei Saharawi e sulla guerra tra Etiopia e Eritrea… Nel 2011 i suoi scatti africani sono stati esposti (insieme con quelli di Mario Dondero) all’interno di una mostra organizzata a Milano dalla ong Fratelli dell’Uomo. Oggi Butturini si trova al centro di una controversia surreale. È stato accusato infatti di “razzismo conclamato” e messo all’indice o, meglio, al macero, da un’operazione che, con un termine ora in auge, possiamo definire di cancel culture e che evidenzia i limiti e i paradossi di certe missioni iconoclaste.
I fatti, in breve. Nel 1969 Butturini ha 34 anni e pubblica il suo primo libro, London, in cui racconta da una prospettiva decisamente non istituzionale la Londra della beat generation, tra contraddizioni, conflitti sociali e spinte consumiste. L’anno precedente era stato segnato dall’uccisione di Martin Luther King e un grande fermento antirazzista attraversava l’Atlantico. Butturini è immerso nel dibattito dell’epoca e, come si evince dal testo che accompagna le immagini, è critico rispetto all’heritage dell’Impero e ha molto chiaro da che parte stare: quella dei neri, degli immigrati, dei proletari, degli emarginati. È dichiaratamente antirazzista.
Il libro, caratterizzato da una particolare e graffiante forma di comunicazione grafica, riconducibile al background professionale dell’artista, diventa un cult e poi una rarità. Martin Parr, fotografo acuto e dissacratore, diversi anni dopo lo “scopre” e si propone di rieditarlo. Gli eredi danno il loro ok e il volume vede la luce nel 2017, edito dalla casa editrice bolognese Damiani. L’impianto originale viene mantenuto. In apertura si aggiunge solo l’introduzione di Parr. Fin qui tutto bene.
Poi accade che una studentessa inglese nera, tale Mercedes Baptiste Halliday, riceva in dono il volume e lo sfogli ritenendo di trovare al suo interno delle immagini razziste. In particolare, a suscitare la sua indignazione, è il dittico che vi abbiamo proposto in apertura e che potete rivedere qui a sinistra, formato dal ritratto di una donna nera, venditrice di biglietti del metrò, e dal gorilla di Regent Park.
I soggetti sono intenzionalmente accostati, non per suggerire la crassa equazione nero=scimmia, ma per mostrare le solitudini della metropoli e le sue sbarre non sempre visibili. Con queste parole Butturini spiega la scelta figurativa: «Ho camminato di notte, di giorno, ho setacciato gli angoli della città che il turista non vede. Certo non ho fotografato le guardie della regina, impettite e inamidate come statue di gesso. Ho fotografato una negra, chiusa nella sua gabbia trasparente; vende biglietti per il metro: sola spenta prigioniera, isola immota e senza tempo tra i flutti di umanità che scorrono si mescolano si fondono davanti alla sua prigione di ghiaccio e di solitudine. Non ho fotografato i guardiani della Torre o i banchieri della City con ombrello e cappello duro. Ho fotografato il gorilla di Regent Park, che riceve con dignità imperiale sul muso aggrondato le facezie e le scorze lanciategli dai suoi nipoti in cravatta».
Certo, usa la famigerata n-word. Ma nel 1969, quando il libro esce, la parola non aveva in italiano una connotazione negativa. Nella riedizione il dittico non era stato smontato e il testo non era stato modificato per una questione di aderenza filologica.
Halliday probabilmente non legge quel testo o se lo legge non ne capisce il significato ma si arresta come troppo spesso accade alla superficie, ossia al primate in gabbia e alla parola incriminata. Con ogni probabilità non ha idea di chi sia Butturini e evidentemente non le interessa scoprirlo. Preferisce affrettarsi a denunciare. Su Twitter lancia lapidaria il suo anatema, trovando consensi nel circo social e anche l’appoggio di un fotografo ex produttore della BBC e di altre figure della scena pubblica. L’obiettivo di questi ultimi è Parr, figura potente ma anche mal digerita nel mondo culturale e fotografico britannico. Il fotografo inglese viene accusato di razzismo e analfabetismo visivo. La studentessa lo paragona alla «statua della fotografia di Charleston», che rappresenta «una generazione di uomini bianchi di mezza età che fanno ciò che vogliono senza conseguenze». Parr, dice in un’intervista, «è un’istituzione e noi abbiamo appena iniziato a smantellarla».
L’onda però travolge inevitabilmente anche Butturini, che ovviamente non ha la possibilità di dire la sua in quanto trapassato. In totale rimozione e travisamento della sua storia e della sua opera, viene liquidato come “razzista conclamato”, mentre il libro è tacciato di essere portatore di “valori di intolleranza, non rispetto reciproco e coesistenza pacifica”.
Il braccio di ferro va avanti per un po’ e alla fine Parr decide di capitolare: si dimette dalla giuria del Bristol Photo Festival, si scusa pubblicamente per la sua cecità imperdonabile legata alla sua condizione di maschio, bianco e di mezza età e, last but not least, chiede alla casa editrice che London venga messo al macero. Tutto questo, e soprattutto l’ultimo passaggio, appare inaccettabile a quanti abbiano conosciuto Butturini, personalmente o attraverso le sue opere (e infatti fioccano le manifestazioni di solidarietà) e ovviamente ai i figli del fotografo e ai membri dell’associazione che custodisce la sua memoria. «È insensato giudicare un libro costruito come un continuum narrativo estrapolando due immagini e prescindendo dal contesto in cui l’opera è stata realizzata e dalle finalità dell’autore», ci ha detto Tiziano Butturini. «Del tutto inaccettabile poi è il proposito di mandare al macero un documento storico e artistico di questa portata. Se le immagini “incriminate” appaiono discutibili oggi, alla luce di una nuova sensibilità, se ne può appunto discutere. La messa al macero però tronca qualsiasi discussione. È una mossa degna di una dittatura».
Rispetto a Hallyday, Tiziano Butturini non si sbilancia: «È probabile che non abbia capito di cosa stesse realmente parlando e non abbia la più pallida idea di chi sia stato mio padre. Il problema è rappresentato da chi le sta dando spazio e credito». È rimasto invece assai deluso da Parr che, scrivendo in privato alla famiglia Butturini, ha riconosciuto come prive di fondamento le accuse di razzismo ma pubblicamente ha preferito cospargersi il capo di cenere. Giorgio Oldrini, ex sindaco di Sesto San Giovanni ed ex giornalista dell’Unità, che con Butturini ha viaggiato e lavorato a Cuba, commentando la scelta di Parr ha scritto su FB: «Si è piegato ad una autocritica come ai tempi della Rivoluzione culturale cinese».
Non hanno intenzione di piegarsi però i figli del fotografo, che stanno trattando in queste ore con la casa editrice per salvare i volumi dal macero e prendere in mano la distribuzione. Se non dovessero riuscirci, si impegneranno in una nuova ristampa, priva ovviamente dell’introduzione di Parr.
Chi fosse interessato, può prenotare una copia già da ora, scrivendo a archiviogianbutturini@gmail.com
(Stefania Ragusa)