Google ha ideato un modo per sostenere negli Stati Uniti gli esercizi commerciali gestiti da afroamericani. Si tratta di una piccola icona, a forma di cuoricino, che a richiesta del titolare dell’attività comparirà sulla pagina che riassume i dati utili per raggiungere il negozio. Chi cercherà e troverà su internet quel negozio saprà dall’inizio in quale categoria etnica si inserisce il proprietario e potrà eventualmente sceglierlo proprio per quella ragione.
A presentare in rete il nuovo strumento (nuovo sul piano sociale più che su quello tecnico) è stata la diretta promotrice: Jewel Burks, giovane donna nera responsabile delle startup per il gigante digitale californiano. «Con questo attributo, il nostro obiettivo è rendere Google Search e Google Maps più inclusivi e aiutare a supportare le attività di proprietà di neri in un momento in cui ne hanno particolarmente bisogno».
In un Paese “informato” dal politicamente corretto e in cui la profilazione etnica è considerata un normale requisito anagrafico, la decisione di Google è apparsa in prima battuta come un modo di ribadire una scelta di campo politico, quindi uno strumento di supporto rispetto a una comunità che è stata particolarmente colpita dalla pandemia. Secondo le statistiche governative diffuse dal New York Times, ad aprile scorso più del 40% dei proprietari afroamericani di PMI erano disoccupati a causa delle varie misure di contenimento, contro il 17% tra i bianchi.
Per dovere di cronaca va riportato che Google non si è finora distinto tuttavia per presenza afroamericana tra i dipendenti. Se i neri rappresentano infatti il 12,6 per cento della popolazione USA, la percentuale tra i dipendenti del colosso californiano è del 5,5. Da Apple, giusto per fare un confronto, siamo al 9.
Con l’eccezione di alcuni attacchi un po’ scomposti provenienti da testate decisamente schierate, la notizia in Italia è passata quasi inosservata. Eppure non si tratta di una piccola cosa, anche perché – abbiamo potuto vederlo bene in questi mesi – il movimento antirazzista sta subendo in tutto il mondo una sorta di “afroamericanizzazione”. Questo ha certamente permesso alle rivendicazioni di acquisire un grande peso globale, ma al contempo ha determinato una virata verso il comunitarismo e l’essenzialismo, virata che, tra i suoi effetti collaterali, potrebbe avere proprio la richiesta di profilazione etnica, anche in Paesi, come l’Italia o la Francia, in cui le distinzioni di razza sono abolite e aborrite.
In Francia, dove anche da parte degli afrodiscendenti c’è molta attenzione a queste dinamiche, si è fermato a riflettere sulla questione il vignettista ed editorialista franco-burkinabè Damien Glez, evitando di prendere una posizione netta ma ponendo questioni importanti. «Ci sono progressi che assomigliano a delle regressioni, e regressioni che assomigliano a progressi», ha scritto nell’attacco del suo editoriale su Jeune Afrique. Con questo recupero esplicito della razza in che caso ci troviamo?
Glez comincia evidenziando alcuni aspetti positivi del cuoricino nero. Indipendentemente da quel che si pensi delle rivendicazioni identitarie e del comunitarismo e anche dei criteri su cui si basa la profilazione, l’appello a consumare nero, implicito nell’ideazione di questa icona, ha il pregio di essere più pacifico di quello a distruggere i negozi bianchi e dovrebbe permettere di evidenziare il peso concreto della comunità nera nel commercio locale. Infondato appare il paragone con i cartelli apposti davanti ai negozi degli ebrei in Europa sotto il nazifascismo o in Sudafrica sotto l’apartheid, perché in questo caso la decisione è autonoma e libera.
Al di là delle considerazioni “sociali”, ci sono però varie questioni apparentemente solo pratiche – in realtà dirimenti- che rimangono insolute: come verificherà Google le dichiarazioni dei commercianti? La collaborazione delle camere di commercio nere sarà sufficiente? E cosa succederà nel caso in cui il capitale di un esercizio appartenesse per metà a un bianco e per metà a un nero? E, soprattutto, quanto durerà una misura di questo tipo? La sua conclusione è che uno strumento come questo, inimmaginabile in Francia, deve comunque anche negli Usa essere inteso come a tempo, «in attesa di un mondo pacifico e multicolore».
E in Italia? Staremo a vedere se qualcuno si accorgerà dell’innovazione e se penserà di importarla. Quel che è certo è che una situazione speculare, ma con eventuale cuoricino bianco o rosa, sarebbe salutata come razzista, discriminatoria e fortemente contestata.
(Stefania Ragusa)