Il grosso pesce respirava ancora, appoggiato sul banco di cemento fra tre mattonelle di ghiaccio che iniziavano a cedere al caldo mischiandosi al sangue rosso. Come era arrivato ancora vivo in un mercato in cima a una collina di Freetown, a qualche chilometro dalla costa e dalle banchine di King Jimmy o di Old Wharf in cui attraccano le piroghe dopo una giornata di pesca? E quel ghiaccio che il venditore pescava di volta in volta da un secchio da dove veniva? Anche alle nostre latitudini quello della logistica e delle catene di approvvigionamento è un settore “nascosto” e difficilmente si ha la percezione della sua complessità ed efficienza: in molte città africane però, alle prese con una cronica carenza di infrastrutture, la distribuzione di beni e servizi appare a volte incomprensibile e miracolosa. Queste città, concepite e pianificate come piccoli centri, a volte in epoca coloniale, faticano a stare al passo con l’esplosione demografica causata prima dalle migrazioni dalle aree rurali e poi dai vertiginosi tassi di crescita della popolazione. Numeri che richiederebbero investimenti costanti, interventi strutturali e piani con una visione strategica difficilmente attuabili da istituzioni ed enti locali ancora fragili. In queste situazioni sono le comunità locali e le singole persone che devono trovare alternative all’assenza dell’offerta pubblica di servizi o di opportunità attraverso l’informalità. Quella che chiamiamo economia informale molto spesso non è altro che una risposta efficiente a bisogni immediati e strategici dei residenti di una città.
L’urbanista Abdoumaliq Simone, in un saggio di pochi anni fa, parlava di «people as infrastructures» indagando proprio le reti informali di persone che garantiscono flussi di merci e servizi sia a livello strategico che capillare. L’emblema di questa realtà è proprio il trasporto delle merci: l’assenza di una rete di trasporti adeguata e capillare, di snodi intermodali o di aree di stoccaggio sarebbe tale da mandare in crisi il commercio al dettaglio di qualsiasi città. Eppure una rete inestricabile di furgoncini, piccoli carretti spinti a braccia, imbarcazioni, aree di deposito invisibili, cesti portati sulla testa o scatole sulle spalle permettono di mantenere costantemente alimentati enormi mercati giornalieri anche nelle zone più remote delle città. Solo apparentemente sono minuscole azioni individuali, in realtà la somma di queste piccole iniziative crea reti imponenti su cui si basano gran parte dei flussi di persone, merci e di conseguenza denaro delle città. Una somma di piccole gocce che fa un mare. Tenerne traccia è un’impresa impossibile, ogni giorno disegnano mappe alternative e invisibili creando nuove geografie: se mancano strade o mezzi sono le persone stesse a diventare strade e mezzi superando in breve tempo ostacoli e distanze incredibili. Non è azzardato affermare che molte città africane sopravvivono e addirittura prosperano grazie all’efficienza di questi sistemi invisibili.
Una razionalizzazione e una “formalizzazione” del settore, se possibile, non potrà prendere a prestito metodi tradizionali o modelli esteri ma dovrà per forza ispirarsi a queste micro-strutture valorizzandone la versatilità e la resilienza. Dopo una breve contrattazione e qualche risata una donna compra il pesce intero, mentre conta e ripiega una a una le banconote sgualcite il pescivendolo fa un breve fischio, subito compare un ragazzo pronto a caricare la merce sulla testa e trasportarla fino a casa della cliente. Queste città non finiranno mai di stupirmi.
(Federico Monica, autore dell’articolo, sarà relatore del seminario, organizzato dalla rivista Africa, “L’Africa delle città”. Per info e prenotazioni, clicca qui)