Wardrobe, lo avevano soprannominato in Inghilterra, cioè armadio, il che la dice lunga su quel corpo statuario che sembrava contenere in sé una predestinazione allo sport. Più lotta senegalese che calcio, in verità. 195 centimetri per 94 chili. Un armadio, appunto, con sportelli d’ebano contro cui molti avversari andavano a sbattere ma che sapeva anche trasformare un colpo di testa in una fucilata, un tiro dalla distanza in un missile terra-aria. Sostanza e potenza. Era insomma un ottimo centrocampista con caratteristiche pressoché uniche.
Impossibile però parlare di Papa Bouba Diop senza citare quel gol alla Francia campione in carica nel match d’esordio dei Mondiali del 2002. Fu lui infatti ad azionare la fionda che colpì Golia. Cross di Diouf dalla sinistra, difesa transalpina in bambola, poi la sua gambona e pallone in rete. E fu 1-0.
Da quel giorno, nonostante una carriera che non offrirà più ribalte così luminose, Papa Bouba Diop diventerà un nome difficile da dimenticare. Forse un po’ anche per quel papabouba così buffo, perfetto per il protagonista di una filastrocca. Più probabilmente perchè fu l’esecutore materiale di un castigo tremendo che ben si prestava a chiavi di lettura e narrazioni a metà strada fra romanticismo e geopolitica (la potenza colonizzatrice che veniva sconfitta da una propria ex colonia, ecc. ecc.). Quella vittoria così impronosticabile sembrava l’epitome della definita esplosione del calcio africano, più precisamente il rito di iniziazione di una nazionale, il Senegal, che non solo conteneva il meglio di tutto quello che fino a quel momento l’Africa aveva espresso ai Mondiali (velocità e genio, inteso come nella definizione del Conte Mascetti: «fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione») ma che addirittura dava l’impressione di offrire un’alternativa sana a un calcio europeo sempre prossimo al rischio di impaludarsi in una dimensione robotica. Un’alternativa allegra, godereccia, gioiosamente anarchica guidata da quel mattacchione di Bruno Metsu. In questo senso quella squadra, che ad ogni gol – e furono tanti – si scatenava in un balletto, rappresentava l’immagine migliore che tutto un continente voleva dare di sé, non solo dal punto di vista schiettamente calcistico.
Sembrava l’alba di qualcosa, ne era invece il crepuscolo. Mai più da allora una nazionale di calcio africana riuscirà a sedimentarsi nell’immaginario collettivo come quei Leoni della Teranga. Certo, otto anni dopo il Ghana ne eguagliò il percorso (fuori ai quarti), ma fu infinitamente meno iconico, a dimostrazione del fatto che nello sport vincere conta ma per rimanere nella memoria serve altro. E oggi che il calcio africano riesce solo a produrre eccellenti individualità ma niente che possa ricordare exploit come quello del Senegal del 2002, la morte di Papa Bouba Diop ha fatalmente scatenato un gigantesco effetto nostalgia di cui il web in queste ore sta dando piena testimonianza.
(Diego Fiore)